Perché non perdersi 'The Laboratory of the Future'

La Biennale di Architettura firmata Lesley Lokko dedicata all'Africa: dal 20 maggio al 26 novembre

sezione: blog

21-02-2023
categorie: Design, Architettura, Arte, teatro, performance, Libri,

» archivio blog

Perché non perdersi 'The Laboratory of the Future'

La Biennale di Architettura firmata Lesley Lokko dedicata all'Africa: dal 20 maggio al 26 novembre

La #BiennaleArchitettura2023 si intitola #TheLaboratoryOfTheFuture e la cura Lesley (Naa Norle) Lokko, architetto di origine ghanese nata in Scozia 59 anni fa. 

Autrice di libri e anche ex preside di una scuola di architettura, ha appena presentato la sua Biennale a Ca’ Giustinian (e non è una coincidenza) di martedì grasso. La sua prosa è magniloquente eppure sobria, la sua voce non perde un solo colpo esplorando tutti i gradi di importanza e complessità del suo gigantesco programma. 

 

Dopo la conferenza stampa, se possibile, questa mostra è ancora più attesa (apre il 20 maggio e chiude il 26 novembre prossimi). Anche perché sarà anche dotata di una dorsale ‘evenementielle’, Carnival: un progetto ambizioso (finanziato interamente da Rolex) di edutainment, più entertainment che content, che si sviluppa lungo tutti i mesi di apertura - e vedremo in seguito se in tutti i luoghi già previsti ed attivati: Arsenale, Giardini, Forte Marghera - a cui la curatrice tiene molto.

 

I temi - decarbonizzazione e decolonizzazione - non sono ovvi, sono semplicemente urgenti e finora male affrontati, secondo la curatrice, che si concentra (anche) sul ruolo che mostre del genere possano avere nella professione, nel mercato e soprattutto nei confronti delle giovani generazioni a cui, lo ha già provato nella sua carriera, è primariamente interessata. Anche perché ha dimostrato che la formazione è un asse portante della professione di architetto oggi.

L’Africa non è solo l’agente di questa metafisica dell’architetto come ‘ispiratore/correttore’ ma è un luogo (e poi una diaspora, quindi una cultura ed un temperamento) che ha anticipato e potrebbe spiegare fenomeni che ormai affliggono altri continenti in misure diverse ma costantemente (e drammaticamente) in aumento. Legandosi a doppia cifra con conflitti striscianti, guerre di materie prime e altri disastri.

Progettare cibo o quello che serve per contrastare, su ogni scala, il cambiamento climatico, i nostri arredi e sistemi: tutto parla allo stesso modo e per questo andrebbe ‘raccontato’ ed immaginato nelle due chiavi-leit motif della sua mostra: decarbonizzare, decolonizzare.

 

Gli architetti invitati si affiancano ad una serie di altri creativi (da artisti, a librai, a musicisti e registi, tra cui Amos Gitai) tanto che la curatrice ha volutamente coniato un termine preciso, practitioner, per distinguerli dai ‘participants’ delle mostre precedenti. Rendendo assai esplicito che la mostra sarà costruita come quelle d’arte e che si è imposta un doveroso risparmi di costi anche pensando a quanto i ‘practitioners’ dovessero affrontare per esserci (la Biennale, va aggiunto, da anni ha in piedi un programma di neutralità carbonica, certificato dal RINA).

 

Molte le novità, due sono assai rilevanti: la prima è, a mio avviso e a maggior ragione per gli scopi della curatrice, la nascita del College, da questa edizione, anche alla Biennale di architettura: 50 percorsi gratuiti di alta formazione per giovani professionisti (registrato un numero monstre di application: oltre 900 da tutto il mondo) con tutor d’eccezione, inclusa la curatrice che passeranno due settimane a Venezia con laureandi e giovani architetti. Durante le loro classi a giugno verrà girato un documentario che sarà sugli schermi della Biennale ad ottobre prossimo. Gli altri tutor sono: Samia Henni, Marina Otero, Nana Biamah-Ofosu, Thireshen Govender, Lorenzo Romito, Jacopo Galli, Philippa Tumumbweinee, Ngillan Gbadebo Faal, Rahesh Ram, Guillermo Fernandez-Abascal, Urtzi Grau, Samir Pandya, Alice Clancy, Sarah de Villiers e Manijeh Verghese

 

La seconda è aver esplicitamente ‘censito’ lo stato dell’architettura corrente (senza incorrere in gender gap in quanto la ratio di uomini e donne invitati è 50/50). 

La mostra è divisa in sei parti: 89 partecipanti, di cui oltre la metà provenienti dall’Africa o dalla diaspora africana. L’età media è 43 anni, scende a 37 nella sezione Progetti Speciali della Curatrice, in cui il più giovane ha 24 anni. Il 46% dei partecipanti considera la formazione come una vera e propria attività professionale e, per la prima volta in assoluto, quasi la metà dei partecipanti proviene da studi a conduzione individuale o composti da un massimo di cinque persone. In tutte le sezioni della Mostra, oltre il 70% delle opere esposte è stato progettato da studi gestiti da un singolo o da un team molto ristretto.

 

Tra i partecipanti nella sezione al padiglione Centrale, scorgo Theaster Gates (nominato anche in conferenza stampa). 

L’artista visivo nato nei sobborghi di Chicago che ha fatto della sua ‘africanità’ e del genius loci le cifre stilistiche principali della sua poetica, ha esposto con gallerie di primaria importanza, tra cui Gagosian, ed oltre a due recenti esibizioni alla Biennale di Venezia Arte (in una ha ricostruito perfettamente una chiesa demolita negli outskirts di Chicago, campana inclusa) le registra in quasi tutti i maggiori festival di arte come Documenta. Mai invitato prima come architetto.

Il suo training in storia delle religioni (in Africa), in arte ed in architettura ed urban planning nel mondo occidentale e nel continente, lo fanno assurgere a quel prototipo di ‘practitioner’ a cui forse voleva alludere Lokko.

La curatrice inoltre spiega: ‘The Laboratory of the Future inizia nel Padiglione Centrale ai Giardini, dove sono stati riuniti 16 studi che rappresentano un distillato di force majeure (forza maggiore) della produzione architettonica africana e diasporica. Si sposta poi nel complesso dell’Arsenale, con la sezione Dangerous Liaisons (Relazioni Pericolose) – presente anche a Forte Marghera, a Mestre - affiancata a quella dei Progetti Speciali della Curatrice, che per la prima volta è una categoria vasta quanto le altre. In entrambi gli spazi sono presenti opere di giovani “practitioner” africani e diasporici, i Guests from the Future (Ospiti dal Futuro), il cui lavoro si confronta direttamente con i due temi della Mostra, la decolonizzazione e la decarbonizzazione, fornendo un’istantanea delle pratiche e delle modalità future di vedere e di stare al mondo. (…) Abbiamo espressamente scelto di qualificare i partecipanti come “practitioner” – ha chiarito la Curatrice - e non come “architetti”, “urbanisti”, “designer”, “architetti del paesaggio”, “ingegneri” o “accademici”, perché riteniamo che le condizioni dense e complesse dell’Africa e di un mondo in rapida ibridazione richiedano una comprensione diversa e più ampia del termine “architetto”.

 

63 sono le partecipazioni nazionali previste, 27 nei Padiglioni ai Giardini, 22 all’Arsenale, 14 in città. 

Il Niger partecipa per la prima volta alla Biennale Architettura; Panama si presenta per la prima volta da solo, nel passato partecipava come I.I.L.A. (organizzazione internazionale italo-latino americana).

Torna la partecipazione della Santa Sede alla Biennale Architettura, con un proprio Padiglione sull’Isola di San Giorgio Maggiore (aveva partecipato per la prima volta alla Biennale Architettura nel 2018).

Il Padiglione Italia alle Tese delle Vergini in Arsenale, per il quale la Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura aveva diramato (era ancora Ministro Franceschini) un invito a partecipare a 10 studi di architettura avendo in mente di privilegiare uno studio al femminile, è curato dal collettivo Fosbury Architecture, formato da Giacomo Ardesio, Alessandro Bonizzoni, Nicola Campri, Veronica Caprino, Claudia Mainardi. Il titolo della mostra è SPAZIALE: Ognuno appartiene a tutti gli altri.