Un lungo caffè (a distanza) con Alejandro Aravena

vita, battaglie (e la prossima Biennale) del primo Pritzker Prize cileno

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01-04-2016
categorie: Architettura, Slow Words,

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Un lungo caffè (a distanza) con Alejandro Aravena

vita, battaglie (e la prossima Biennale) del primo Pritzker Prize cileno

Alejandro Aravena sarà il curatore della prossima Biennale di Architettura di Venezia, (la 15ma, dal titolo Reporting from the Front, si svolge dal 28 maggio al 27 novembre 2016). Ed è Pritzker Prize 2016.

Cari lettori delle nostre storie: vi invitiamo a mettervi comodi, davanti ad un qualsiasi brano di paesaggio che vi fa sognare ed a seguirci in questa lunga conversazione skype, che abbiamo trascritto quasi letteralmente. Si è svolta mentre lui sedeva di fronte alle sue montagne cilene in un giorno di sole ed io restavo avvolta in una notte scura, dolce e calda di un settembre veneziano di fronte a un canale - proprio accanto a una delle sedi principali dove la biennale si svolgerà, ai Giardini.



La tua storia in poche righe, cominciando a riavvolgere dalla tua infanzia per vedere se anche a quell’età ti trovavi indaffarato con gli ostacoli, le carenze e il riciclo fino a che poi decidesti di studiare architettura (e non solo…)

Non so cosa della mia infanzia possa essere rilevante per il tipo di approccio che uso in architettura, forse il contesto.


Sono nato in Cile (nel 1967) e sono cresciuto in campagna. In quegli anni il Cile era piuttosto povero, remoto, semplice, isolato, non era molto influenzato dall’esterno. Sono stato allevato in una famiglia della classe media e mi godevo i piaceri semplici in un contesto austero. Lo definirei un ambiente primitivo – una natura selvaggia.


Mio padre era del sud e quando andavamo in vacanza eravamo soliti pescare a mani nude, uccidere un agnello con le nostre mani e poi mangiarlo. La cosa rilevante di questi tempi è che non avevi bisogno di così tanto per essere felice.


Da adolescente, ed in particolare quando ero all’università, eravamo sotto la dittatura di Pinochet, quindi l’informazione che circolava era capillarmente controllata. Grazie a questo, successero due cose: da un lato eravamo estremamente affamati ed entusiasti e avidi di tutto quello che accadeva nel mondo e dall’altro vivevamo (e operavamo) in un contesto assai locale; questo dualismo, direi, fu molto salutare per la nostra crescita. Non stavamo cercando di fare qui quello che non si poteva ma anche non avevamo quell’attitudine provinciale tipica dell’isolamento: volevamo conoscere quello che accadeva, dalla musica alla cultura fino agli sviluppi tecnologici. Sapevamo quello che succedeva nel mondo ma (almeno alcuni di noi) cercavamo di non essere tristi. Tutto questo ci rendeva più consci di quello che avevamo qui in Cile. Quindi, per contrasto, apprezzavamo molto di più quel che il contesto locale produceva.


L’altra cosa che vorrei raccontare ,di questa scala di relazioni tra il locale e il globale, è che in una dittatura ti viene chiesto di prendere una posizione forte, a favore o no: nessuna aria grigia era possibile!


Questo mi ha aiutato a sviluppare una certa chiarezza senza pieghe o angoli opachi. Ed è quanto sarei capace, in fondo, di dire in termini generali dei tempi in cui crescevo e di dove sono stato allevato. E quindi, delle conseguenze che ha avuto nella mia pratica attuale, di architetto.



 

Le vittorie, i miglioramenti sono spesso fatti di piccoli, accurati passi ed, inoltre, sono spesso relative – hai citato qualcosa del genere una volta a proposito di quanto accade nella progettazione di architetture. Puoi dire come influenzi i decisori (per esempio comuni, o grandi clienti) su come riformulare, o riconsiderare, il loro ‘consumismo’ architettonico e magari mitigare nuovi, falsi, bisogni – talvolta imperialisti?


 

Fammi iniziare provando a scavare più a fondo sull’inizio della domanda.


Quello che volevo dire alla conferenza di presentazione della 15ma Biennale di Architettura a Venezia è che nell’ambiente architettonico siamo spesso giudicati secondo un livello di optimum, una sorta di livello idealistico e utopico.


A causa della paura di essere criticate, molte persone preferiscono non avventurarsi nella zona grigia della realtà perché lì le chance di non ottenere un risultato perfetto sono così alte che preferiscono restare nel confort delle pubblicazioni, delle ricerche, dell’accademia, delle installazioni temporanee e delle mostre (è veramente ingiusto!)


Quello che ho voluto affermare è che io preferisco qualcosa che diventa realtà anche con un 51% di buono, o di pro, e un 49% di cattivo, o di contro, nel risultato piuttosto che un 100% perfetto che però è un progetto che rimane sulla carta! Era questo che volevo dire circa il successo relativo in architettura: quel che riesci a fare meglio anche in una realtà disastrosa.


Preferisco fare qualcosa di leggermente migliore al posto di non fare nulla. Penso che la Biennale di Architettura debba incoraggiare ad assumersi dei rischi, andando in quelle aree grigie, anche se il risultato non è ottimale. Questo di sicuro è il paradiso dei critici, tutte le volte che decidi di esporti e fare…La nostra società si chiama Elemental è non è un think tank, è un do tank. Alla fine facciamo qualcosa. Quel che m’interessa è incoraggiare a prendersi dei rischi. E mi interessa anche che quando passiamo alla fase del giudizio, prima di tutto ci soffermiamo a capire tutti i limiti della situazione.


Il modo in cui entriamo in dialogo con il cliente – qualsiasi tipo di cliente: dai più grossi alle comunità – non è cercando di dare risposte e soluzioni a quel che pensano (o a quel che possiamo pensare noi) sia la domanda. Molte volte, loro hanno un’idea iniziale ma non è necessariamente quella la loro domanda. Facciamo un esempio: se chiedo una casa con un numero x di camere da letto, è parte della richiesta ma non è la domanda. La domanda va arricchita con altre riflessioni da condividere: dove si trova la casa, le condizioni tecnologiche, il budget, le regole, chi la costruisce e quali sono gli skill dell’impresa, le forze lavoro disponibili…sono questi gli aspetti che definiscono una domanda…


La prima cosa che facciamo con i clienti è cercare di definire cosa informa la forma del progetto che stanno curando.


Come architetti, diamo forma agli edifici dove le persone vivono, dormono studiano mangiano, si divertono…Questi spazi possono aver forme differenti e quel che ci assicuriamo di cercare su ogni progetto è la mutua comprensione. Non cerchiamo di giudicare, anche se talvolta alcune richieste sono davvero sconce.


Il desiderio è un drive potentissimo sui progetti. Se il cliente chiede qualcosa di veramente strano, invece di giudicare lo accettiamo come punto di partenza e non ci fermiamo lì, chiediamo: cosa cerchi quando vuoi questo stile? Vogliamo sapere cosa veramente vogliono.


Non siamo aperti all’avidità di progetti sproporzionati. Se il fine di alcune operazioni immobiliari è solo quello di far soldi, allora noi ci tagliamo fuori. Il profitto non può essere, per noi, lo scopo (principale) del costruire.


Anche con i comuni, si tratta per noi sempre di trovare il dialogo. E talvolta cerchiamo di spingere qualche cambiamento nei regolamenti. Ma di certo non stiamo ad aspettare fino a che cambino le regole per progettare e costruire. Mentre aspettiamo, migliaia di metri quadri saranno comunque tirati su con le regole esistenti, quelle che io definisco le circostanze correnti. Cerchiamo di influenzare le regole del gioco, le politiche, le percezioni e l’importanza di ascoltare l’opinione pubblica ma, allo stesso tempo, vogliamo capire cosa dei limiti legali, temporali ed economici possiamo ingoiare per consegnare il progetto, dimostrando che le cose possono accadere comunque e per il meglio. Quindi, pensare due volte e meglio – dato un insieme di regole – a portarlo a conclusione.

 



Come membro fondatore di Elemental hai ricevuto premi importanti per il tuo interesse, e per l’applicazione innovativa dell’architettura sostenibile.


Cosa ti aspetti di ricevere dalle nazioni che partecipano alla Biennale di Architettura che curi nel 2016? Mostreranno quello che non sono ancora capaci di fare o imbelletteranno i pochi passi fatti verso un futuro migliore? Saranno capaci di condividere appieno le loro pratiche? Che strumenti assegnerai loro?


La relazione tra il curatore e i padiglioni è quella di fare un invito abbastanza attraente e avvincente: non controllo, e non curerò, quello che esporranno, c’è una certa autonomia, indipendenza da parte di ogni paese circa quello che vorranno esporre. Se il tema è abbastanza attraente, in altri termini se è sufficientemente ampio, e contemporaneamente concreto, allora penso che le possibilità che un paese accetti l’invito sono più alte. Reporting from the Front è per sua natura ciò che i paesi sanno fare meglio: sanno quali sono le battaglie che contano davvero, quali problemi siano i più rilevanti, pressanti e cruciali. E, in questa condivisione – prima dei problemi e poi del modo in cui li affrontano – l’essenza è quella di essere piuttosto universali.
Tutti quelli coinvolti nel festival hanno studiato architettura – penso che l’unico requisito sia quello della chiarezza, della trasparenza nel presentare quali siano state le condizioni di partenza, i limiti e cosa abbia informato la forma che stanno per esporre in Biennale, così ognuno sarà in grado di misurare la distanza tra i mondi che stiamo guardando ed il contesto da cui veniamo.


Il processo di collegare la natura umana non viene mai da quel che è simile ma da quel che è diverso. La diversità gioca un ruolo primario e la ricchezza di eventi come la Biennale di Architettura è proprio da cercare nel grande numero di nazioni che vi partecipano. Ognuna con la propria voce, sebbene io speri che tutti si guardi nella stessa direzione. L’invito a raccontare dal proprio fronte è un modo per arricchire il dialogo tra culture.

 



Ci racconti il tuo esercizio preferito nel ricercare, e praticare, la ‘seconda vita’ degli edifici?


Ohh, fammici pensare…


Immagino che l’architettura sia sempre un dialogo, per rispondere alla vita quotidiana, ordinaria che per sua natura è mutevole ed in evoluzione: in qualche modo, il ciclo di vita dell’ambiente costruito deve essere abbastanza flessibile per riuscire a rispondere a questa mutevolezza, anche se si bilancia con tutto ciò che tende ad essere stabile.


L’architettura fornisce una cornice senza tempo, sennò il genere umano sarebbe ancora nomade.


L’architettura cementa anche un accordo sociale, dando forma alle missioni della società civile: ecco perché gli spazi aperti e le aree pubbliche tendono ad essere più stabili degli edifici stessi. E’ una riflessione sull’accordo sociale, più forte della realtà fisica dei materiali.


Ciò detto, penso che sia buono che gli edifici durino per più generazioni nel posto in cui sono. Tuttavia, noi siamo passati da una sensibilità e una tecnica che volevano ogni attività umana confinata in una stanza separata a uno stile di vita che richiede spazi più fluidi e continui, che ora quindi si preferiscono più aperti.


E’ qui che ora includiamo più attività differenti alla volta – quindi il restauro degli edifici tende oggi a demolire i muri divisori. Se questi divisori fossero abbastanza leggeri e se non sono richieste operazioni strutturali più onerose, allora è meglio anticipare questa necessità, capire prima quali parti degli edifici non cambieranno mai e quali invece sì e lasciare quindi queste ultime aperte in modo tale che le mutate condizioni di vita possono essere soddisfatte grazie a una progettualità e non nonostante essa!



 

Quindi preferisci pensare alla seconda vita dell’edificio prima? Prima che diventi obsoleto?


Non propriamente, penso soltanto che la struttura rimanga la stessa ma penso a costruire le altre parti, come le divisioni, con qualcosa che è fatto di materiali facili da cambiare. Abbastanza, intendo, per permetterci di cambiare idea.


Per definizione, se usi un materiale facile da smantellare, non produci rifiuti. Ad esempio il legno come divisorio può essere tolto via con dei martelli e non con dei trapani…E quel che cavi via rimane pur sempre ‘materiale’ e non ‘rifiuto’…


Nei paesi come il mio, di nuovo, il perfetto è il nemico del buono – una traduzione letteraria di un celebre detto. Se cerchi di anticipare così tanto qualcosa di imprevedibile e vuoi dire in che modo andrà a finire, le possibilità che tu fallisca saranno troppo alte: devi solo essere ragionevole e usare il senso comune. Rendi possibili e facili quei cambiamenti che sono lontani dall’oggi.

 



Hai progettato molti spazi per l’apprendimento – dai campus alle università, per la maggiore in quelle dove hai studiato – e anche una ‘stanza per scrittori’. Ci racconti di più sulle scintille creative e le idee dietro quest’ultimo progetto?


Non è che siamo particolarmente interessati agli edifici per l’istruzione, succede che i clienti ci chiamino per questo.


Non siamo un grande studio e ogni volta che qualcuno vuole costruire qualcosa noi prendiamo al volo l’opportunità. Non è che non pianifichiamo strategicamente il dove vogliamo essere poi, ma eccetto che in alcuni specifici settori normalmente accade che i clienti ci chiamino e non il contrario, che noi li avviciniamo.


Questo è stato il caso della stanza per scrittori.


Qualcuno ci ha chiamato in ufficio parlandoci del progetto di una sorta di ritiro sospeso. Il brief diceva che gli scrittori dovevano essere un po’ sospesi (e isolati) dal mondo per poter avere il loro tempo introspettivo e creativo – avendo però anche la possibilità di uscire e incontrare gli altri a seconda del bisogno, ma poi fare ritorno alla loro intimità creativa. Ecco perché abbiamo creato delle stanze sospese, che non toccano terra.


L’approccio alla base di questo progetto è che se vuoi restare isolato per creare e non essere disturbato, non necessiti di altre informazioni, hai solo bisogno di trasformare quello che hai acquisito prima in conoscenza o creazione.


Ci potrebbero anche essere segni e caratteri dei creatori che il pubblico, chi assiste ai momenti creativi, vuole avere o guardare per sapere di più dell’autore, in questo caso uno scrittore. Allora ci siamo chiesti come comunicare il loro processo creativo al pubblico senza farli disturbare da chiunque venisse e chiedesse cosa stessero facendo.


Abbiamo quindi pensato che la facciata delle stanze sospese potesse essere fatta di scaffali dove ciascun scrittore poteva mettere tutte le cose usate durante la creazione (immaginate gli autori lì per sei mesi, di sicuro portano cose parecchio differenti con loro!).


Per esempio, se lo scrittore beve, lo renderà visibile sullo scaffale mentre noi, questo, tendiamo a nasconderlo nelle nostre case. E non vediamo mai cosa c’è dietro gli scaffali. In queste stanze, senza guardare lo scrittore, si poteva scorgere una fetta della sua personalità…Per esempio, chi ha un sacco di vestiti, o di caffè o di vino, o di carta igienica, o di fotografie…ogni cosa li rappresenta (così come ci rappresenta, e dice moltissimo di noi, anche la spazzatura che produciamo!)


Dopo i mesi di residenza di scrittura, il consumo di questi beni o l’uso degli oggetti relazionali ha detto molto al pubblico!



 

E’ dura e quanto iniziare un’attività imprenditoriale come la tua nella tua città, o in generale? 


E’ difficile da dire perché non posso fare paragoni con altri posti ma penso che è difficile tanto quanto in altri settori professionali. Incredibilmente difficile! L’architettura ha una difficoltà in più. Non è che ti svegli e decidi cosa vuoi fare - come, ad esempio, se fossi uno scrittore avrei bisogno di trovare i soldi per l’affitto, per comprarmi da mangiare ma il prodotto (in questo caso il libro) dipende solo da me. Con l’architettura, anche se mi sveglio una mattina con un’incredibile voglia di costruire, non costruisco! Ho bisogno di qualcuno che abbia bisogno di un edificio prima, e quel qualcuno può essere una società, un’istituzione, un governo o un gruppo di persone …quindi di nuovo: è già difficile avere buone idee ma in questo campo, hai bisogno anche di qualcun altro per dare forma a tutto. Oltre a ciò, servono un sacco di soldi, e tanto tempo: dal momento che sei contattato dal cliente al momento che finisci l’edificio nella migliore delle ipotesi passano tre o quattro anni…Occorre una grande passione, quindi no, non è stato facile iniziare. Ma, tornando alla prima domanda, quella sull’infanzia, dato che non ho mai avuto bisogno di molto, posso essere molto paziente mentre aspetto che il processo inizi a dare i suoi frutti.

 



Un incontro importante avvenuto al lavoro?


Di sicuro quando ho incontrato il ragazzo con cui ho fondato Elemental, è un ingegnere dei trasporti (Andres Iacobelli). Ero stato invitato ad Harvard e lui a quel tempo stava studiando lì ad un master in politiche pubbliche alla Kennedy School of Government, quell’incontro mi ha cambiato la vita. Fino ad allora, non avrei mai pensato di lavorare nell’edilizia sociale: lo devo principalmente a lui.



E il traguardo più importante dopo così tanti anni da architetto e non solo (hai anche insegnato per un po’ alle giovani generazioni di ricercatori)?


Non insegno più tanto. Ho smesso nel 2004, oltre dieci anni fa. Sono sempre legato all’università ma non insegno nel senso convenzionale del termine.


E’ molto difficile, ne’ io ne’ i miei colleghi sappiamo realmente quel che facciamo. Come faccio a dire agli altri cosa fare? L’architettura è guidata da certezze inesprimibili. Dobbiamo imparare il linguaggio di altri professionisti, quello dei limiti legali ma alla fine quel che guida le nostre decisioni sono queste certezze inspiegabili: sai qualcosa ma non sai spiegarlo a parole. Appena inizi a lavorare, sai che si tratta di una teoria, di una metodologia, di una ricetta e che non è forte, non è vera abbastanza.


L’accademia non lancia abbastanza sfide: il mondo professionale anche con tutte quelle zone grigie e problemi e frizioni di cui ti parlavo prima (e dove appunto il risultato potrebbe non essere quello dei più puri) è molto più potente.


C’è più vita, c’è più fiaba lì fuori, nella realtà, che nell’accademia.

 



Come combini la pregnanza riflessiva e la schizofrenia della tua attività esecutiva?


Non so se sia schizofrenica, questa è una malattia. Nella vita normale, e sana, devi sempre combinare riflessione e azione senza necessariamente essere ammalato. Quindi, la considero naturale!


Non mi piace citare persone famose – anche se pare che più citi qualche vero intellettuale più sembri intelligente – ma stavolta voglio citare semplicemente un filosofo famoso, Ludwig Wittgenstein: ci sono due tipi di cose in questo mondo, quelle di cui puoi parlare e quelle di cui non puoi.


Di quelle di cui puoi parlare, devi essere il più semplice e diretto possibile perché dovrai farlo per persone molto differenti, dal lavoratore agricolo che magari non sa leggere al presidente della repubblica. Quanto più semplici saranno i tuoi discorsi, tanto più potrai convincere le persone, e le loro conoscenze, a stare dalla tua parte. Dall’altro lato, per le cose di cui non si è capaci di parlare (le certezze inesprimibili), devi restare zitto e passare all’azione – semplicemente fare.


Una cosa bella capitata di recente, da persona di questo mondo?


Un sacco dal lato professionale. Il fatto di curare la Biennale di Architettura del 2016 è incredibile. E’ un grande privilegio, un veicolo potente per dire cose e ascoltare, e professionalmente parlando, sono felice di essere al lavoro in progetti molto impegnativi – dalla ricostruzione di una città dopo un disastro alla relazione con le comunità per progetti associati all’industria estrattiva e a questioni politiche.


Come essere umano, tutto quello che accade nella mia famiglia è particolarmente prezioso – pranzare con i figli, guardarli scoprire la vita giorno dopo giorno. Sai, anche le cose più semplici al livello personale sono molto potenti. E’ già così straordinario essere capace di vivere in questi due mondi differenti: un contesto lavorativo molto arduo e allo stesso tempo una vita privata così forte, normale, sorprendente, ed emozionalmente ricca.

 



Una passione culinaria?


Meno cotto è meglio è. Come i ricci di mare.

 



Drink, o vino, preferiti?


Non so, dipende dalle occasioni.

 



La musica e il libro con te in questo momento (e dove si trova)?


(silenzio).


Un vastissimo repertorio che spazia da Violeta Parra (Violeta del Carmel Parra Sandoval, 1917-1967, cantante, compositrice, cantautrice folk cilena) ai Radiohead…oh dovrei guardare sul mio cellulare…


Il libro più vicino adesso? Leggo quasi solo biografie, poi sono solito leggere più libri quando vado a letto con le mie figlie, quindi direi libri per bambini prima di dormire.

 



Oh! Fantastico, puoi trovare un sacco di biografie su Slow Words…di persone normali. E anche di architetti… 


Oh, gli architetti, chi legge le loro storie?

 

 

Mah, li leggono perché sono ancora vivi, perché vengono da diverse parti del mondo… 


Perché leggere di loro? Non è meglio incontrarli? E parlare, avere un contatto faccia a faccia. Quello che non mi piace dei libri intellettuali è che tendono ad essere troppo intelligenti e quindi noiosi. Preferisco il potere della vita alla perfezione del criticismo.

 



In che modo provi a vivere lentamente, se lo fai, in una città come la tua?


Penso sia il modo in cui vivo ora.

Cammino da casa al lavoro, pranzo a casa, ogni giorno siamo insieme in famiglia. Il Cile è un posto lontano e sono protetto dalla distanza. Non devo essere ovunque, non sono ossessionato dal networking, dai cocktail…Vivendo qui, ho già deciso che li perderò tutti. E’ fantastico tutto ciò perché posso lavorare e avere una vita.


Di nuovo, vorrei dirti che questo non è un fatto ideologico. Quando lavoro il passo è assai spedito, c’è un sacco di adrenalina, devi risolvere un mucchio di cose…La creazione in fondo richiede tensione (non crei in un ambiente assai rilassato, più pressione e frizioni hai è meglio, così come più limiti!). Quel ritmo e quella velocità, insomma questa dimensione energetica, va controbilanciata con il fare il meno possibile.


Ora guardo fuori la finestra dell’ufficio: quel che vedo sono le montagne – vedi, non posso andare da nessuna parte, quindi sono piuttosto lento!


 
Un talento che hai, uno che ti manca?


Così tanti mi mancano: saper cantare, ballare, la musica, gli sport…Forse quello (o quelli) che ho non è un particolare talento, forse dovrei essere più carino…

 



Cosa hai imparato sin qui dalla vita?


Mhh (silenzio)…Forse ad essere equilibrato.


Durante quest’intervista continuavo a dire ‘un po’ di questo’ e ‘un po’ di quello’…


Alla fine, direi che è fondamentale vivere nel presente, esattamente qui ed esattamente adesso, non andare altrove. Altrimenti perdi la vita e tutto quello che stai facendo al momento. Ma se hai solo quella dimensione, allora la tua vita sembrerà non avere scopo. Non vai da nessuna parte, sei perso.


La vita è un’azione solo a una certa distanza e dopo tempo: con un occhio, stai buttando lo sguardo e la tua esistenza il più lontano possibile – avanti e indietro. C’è un sacco da imparare dal passato, dalla storia, dal più primitivo degli esseri al più sofisticato obiettivo culturale. E tutto il background deve essere proiettato nel futuro, il più lontano possibile, per avere uno scopo di un certo significato.


Con l’altro occhio, ripeto, non voglio essere da nessuna altra parte che qui. Essere solo nel presente.


Se non fossi capace di bilanciare, non l’avrei mai capito.


Finisco col dire che questo alla fine significa che guardare indietro è qualcosa di cui non mi pento.