Il Pianeta Terra come cliente a Freespace

71 architetti più 29 in due speciali sezioni, 65 nazioni partecipanti e molto di più

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Il Pianeta Terra come cliente a Freespace

71 architetti più 29 in due speciali sezioni, 65 nazioni partecipanti e molto di più

 

Forse lo statement che colpisce di più tra gli assunti importanti (e provocatori) di Freespace, il manifesto operativo che sottiene alla idea stessa di cura di una mostra di architettura per Yvonne Farrell e Shelley McNamara, è chiedere agli architetti di avere - in maniera tattica e strategica - il pianeta Terra come cliente.  

 

Questo statement è nato, curiosamente ed in maniera imprevedibile per loro stesse, in uno dei loro sopralluoghi veneziani (lo abbiamo scoperto oggi dalle loro parole). In particolare, dall’osservazione, stupefatta e commossa, di Palazzo Ducale immerso nella nebbia veneziana. 

Le architette irlandesi che curano la 16.ma Mostra di Architettura di Venezia sono a capo di Grafton, celebre studio che in Italia ha realizzato il nuovo edificio dell’Università Bocconi (Milano) ed è particolarmente devoto all’istruzione sia nella realizzazione di campus che nella didattica.

 

La Biennale si apre a Venezia il 26 maggio 2018 e chiude il 25 novembre dopo una due giorni di meeting con architetti internazionali (il 24/11 è previsto proprio il più atteso, quello che racconta perché e come avere il pianeta come ‘cliente’). 

Dopo il boom di pubblico e di presenze anche extra-settore registrato dalla scorsa kermesse curata dal cileno Alejandro Aravena l’istituzione culturale italiana insiste ancora sull’idea di considerare l’architettura la più politica delle arti dove i cittadini sono chiamati ad un ruolo essenziale, secondo il presidente Paolo Baratta: porre le domande più importanti, e quelle giuste proprio laddove le istituzioni non ci riescono o non sono più sufficienti. 

 

L’architettura, insomma, è l’antidoto alla dipendenza ed al conformismo. All’interno della mostra, dopo il restyling della formula operato da Koolhaas di cui vi abbiamo già parlato e che tra l’altro l’ha portata alla durata challenging di sei mesi in occasione dell’Expo milanese, trovano posto non solo la più affermata Mostra del Cinema, ma anche le rinnovate sorelle minori cioè le Biennali Danza, Teatro e Musica. Sono state previste nuove e più flessibili formule di visita integrata e confermate le particolari attività di formazione con le università di tutto il mondo nella sessione Education. 

 

Farrell e McNamara hanno annunciato gli studi partecipanti (71, oltre a quelli raggruppati in due sezioni speciali: Close Encounters, meeting with remarkable projects che conta 16 architetti, The Practice of Teaching con 13) ma non hanno voluto svelare alcun progetto. Preferiscono l’effetto sorpresa per chi verrà a Venezia a visitare la loro mostra. 

 

Dal lato partecipazioni nazionali, troveremo distribuiti quasi esclusivamente tra Giardini e Arsenale 65 padiglioni che hanno già partecipato e 7 presenti per la prima volta (Antigua&Barbuda, Arabia Saudita, Guatemala, Libano, Mongolia, Pakistan, Santa Sede che invece si sposta nel parco di San Giorgio Maggiore, l’isola dei Cini). 

 

Al tempo che scriviamo, insolitamente, non sono stati ancora presentati gli eventi collaterali. 

 

Tra gli architetti invitati, molti i ritorni: i precedenti curatori come lo studio Elemental di Aravena e SANAA di Sejima e Nishizawa, gli artisti-attivisti Assemble di cui vi avevamo già raccontato ed invitati la scorsa edizione da Aravena, Siza, lo studio catalano EMBT di Benedetta Tagliabue e del compianto Enric Miralles, i Crimson, lo studio Chipperfield (che sta ampliando il Cimitero di San Michele a Venezia), BIG, Diller Scofidio+Renfro, Odile Decq e molti altri. 

 

Tra le curiosità, il ritorno di alcuni italiani con piccole realtà (come Grasso Cannizzo) o lo studio della Tasmania Room 11 ed ancora lo studio vietnamita VTN Architects. 

 

Se celare i progetti è determinante per l’effetto sorpresa, le due curatrici hanno voluto condividere, con molta attenzione e dovizia di particolari, tutti gli edifici o progetti di arredo che le hanno colpite ed ispirate nella preparazione del manifesto e poi della mostra internazionale dove si rammaricano solo di non aver potuto invitare più colleghi. 

 

Considerano la pratica del loro mestiere come un ‘fare comunità’ e quindi gli architetti invitati solo un ‘campione’ (la parola sample rende meglio l’idea) di tutto il resto dei colleghi. Come li hanno scelti? Con due criteri fondamentali - tenendo ovviamente conto della loro capacità esemplificativa di ‘dettagliare’ il manifesto Freespace, che si augurino prosegua il suo cammino anche al di là del festival veneziano e anche grazie alla grande risonanza internazionale. Da un lato ci saranno progetti che hanno resistito positivamente all’influenza del tempo restando immutatamente significativi e cruciali, dall’altro quelli fortemente innovativi. Hanno dichiaratamente escluso la fama del progettista come criterio di selezione.

 

La luce, quella naturale, e la forza della natura sia come elemento ingovernabile sia come insaziabile spunto costruttivo sono alcuni dei temi del loro manifesto che vedremo ‘agiti’ attraverso non solo le opere in mostra ma la lunga carrellata di incontri con i professionisti (Meeting on Architecture) che avvengono nei week end di tutta la mostra o quasi (ognuno dedicato a un capitolo del manifesto). 

 

Qualche indizio di ispirazione? La spirale del tempo e della ragione ammirata dalle due irlandesi in alcuni edifici del passato, ad esempio attraverso le ripetute osservazioni del Duomo di Siracusa o attraverso l’insegnamento in situ ai loro studenti dell’importanza del mattone in ‘masterpiece’ come la cattedrale di Albi o l’abbazia a Le Thoronet. 

 

Trovano eguale posto nella costruzione del manifesto e della mostra l’eleganza e la sofisticata funzionalità dei serramenti dell’edificio di Santa Maria della Porta del Portaluppi (che avranno osservato a volontà quando lavoravano alla Bocconi a Milano). Venendo all’housing ‘che cambia la vita nei suoi interni’, si sono ispirate a Ivry Sul Seine dove il paesaggio integrato nel sito migliora, e porta su un piano assai più nobile, lo spazio dell’abitare e l’intero schema di progetto. Ed ancora, le case gallaratesi di Aymonino/Rossi che grazie alle intuizioni insuperate dei progettisti ne fanno un luogo dell’abitare di un’intensità rara, che è in grado di tradurre la qualità teatrale che è una degli asset fondanti in Freespace.

 

Anche il loro progetto alla Bocconi (o il campus Utec da loro firmato a Lima) sono ottimi esempi di Freespace, nel senso che ‘donano’ uno ‘spazio liberato’ alle comunità proprio al grado dove di solito non si trova, quello di uffici o negozi. In questi progetti, lo spazio liberato è sia un significante che una realtà realizzata. Non dimenticano, a questo proposito, di citare una delle architette brasiliane più famose, Lina Bo Bardi ed in particolare il suo Museu de Arte (San Paolo di Brasile).

 

Last but not least, hanno tatticamente annoverato in Freespace il ‘piacere degli alberi’ come monito e memento. Non solo e non tanto come materiale costruttivo ma come teorema di sopravvivenza e di altruismo: citano un anziano che pianta un albero dove non sederà mai per gustarne l’ombra. Il dono alle future generazioni permette alle irlandesi di tornare all’essenza del loro manifesto: l’architettura deve configurarsi come dono al di là delle costrizioni, del rapporto con la committenza e con le questioni più specifiche. Un dono che includa la percezione della vita stessa sulla terra dopo l’architettura stessa. Un dono soprattutto diretto sia a chi usa l’architettura che è stata commissionata in quel dato luogo e momento storico, sia a chi non la usa. Si tratta di un’inedita concezione che comprende - parole loro - senso dell’umanità e generosità di spirito.

 

Nella traduzione della parola ‘freespace’ nelle varie lingue di cui si compone questa mostra, entrambe hanno sottolineato che l’atto di tradurre il titolo (che costituisce anche il logo di questa edizione della Biennale) è molto più di un doveroso atto di stile per un festival internazionale. Rappresenta, infatti, la qualità principale dell’architettura: traduzione dello spazio e capacità di ricomporre componenti addizionali. Per loro l’architettura dovrebbe essere sempre la traduzione dei bisogni del progetto, del pari. 

 

La scrittura del manifesto è scaturita da un viaggio che le due progettiste hanno compiuto prima di scegliere gli architetti invitati, un viaggio nel loro mondo e nella città che ospita la mostra (Venezia). Un viaggio che le ha messe in condizione di esplorare studi e pratiche anche mai viste o di ritornare su siti a lungo esplorati non solo come progettiste ma come docenti (entrambe coprono ruoli all’università e sono membri dei maggiori premi di architettura internazionali).

 

 

L’Europa funestata dal maltempo ha reso impossibile la presenza fisica delle due curatrici nella seconda presentazione alla stampa veneziana: entrambe bloccate nelle loro rispettive case, hanno risposto alle domande del pubblico via skype (se il maltempo continua, forse metterà a dura prova la presenza dello stato maggiore della Biennale a Dublino per la presentazione stampa nel paese, prevista nei prossimi due giorni). L’incidente ha dato nuovamente occasione alle due professioniste di riflettere ancora una volta, pubblicamente e con accorata veemenza, che non siamo indipendenti dalla natura, in nessun modo.

 

 

#BiennaleArchitettura2018 #Freespace