L'architettura ritorna ai fondamentali e al grande cabaret: la Biennale di Koolhas

Perché non ci piace (del tutto) questa Biennale

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23-11-2014
categorie: Architettura,

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L'architettura ritorna ai fondamentali e al grande cabaret: la Biennale di Koolhas

Perché non ci piace (del tutto) questa Biennale

Perché in fondo non mi è piaciuta (del tutto) la Biennale di Architettura 2014? Perché a tratti, purtroppo, mi è sembrata una matita spuntata nonostante le premesse per una mostra innovativa ci fossero tutte (una mostra di ricerca, un luogo di produzione di sapere, il primo tentativo di re-branding delle altre biennali – danza, musica, teatro).

 

Andiamo con ordine: la mostra di Rem Koolhas (Fundamentals) si dipana come al solito al Padiglione Centrale e all’Arsenale. Ai Giardini, sembra di entrare in un libro di architettura e di storia con sezioni dedicate ad ogni componente “hardware” della casa, come scale, porte, ascensori (non mancano le sperimentazioni accennate ma non sviluppate, come quelle del Politecnico di Eindhoven)… Una sala centrale connette tutta la ramificazione delle sezioni (che sono altrettanti volumi del mastodontico catalogo che accompagna la mostra) con una serie di film, squadernati nel punto in cui ci sono gli elementi architettonici esaminati dalla mostra.

All’Arsenale, Monditalia è uno scan, una ricognizione sotto forma di griglia spaziale, della penisola italiana (ed oltre) scritta, filmata, costruita da giovani architetti, ricercatori e storici (variamente legati ad AMO od OMA). La mostra può essere letta in due modi (complementari): le storie di architetture o di correnti o di temi (tra cui l’architettura delle religioni, un progetto di identità comunitaria portato avanti da AMO e dalla Commissione Europea, etc) scorrono parallele ad una collezione di circa 80 film di famosi registi (sull’Italia) proiettati secondo un calendario lungo tutta la durata della mostra.

Monditalia (la mostra) ha funzionato visivamente e culturalmente anche se è super low budget (ogni architetto ha avuto a disposizione una griglia fissa di spazio e un piccolo contributo che ha dovuto necessariamente aumentare con gli sponsor). Da Sud (le propaggini del colonialismo in Africa) fino alle Alpi (il progetto Borders è il migliore visto - a fianco un film straordinario di Armin Linke del 2011 la cui proiezione purtroppo spesso non funzionava) la lettura, originale, del paese che ospita la mostra viene compiuta nell’intenzione di Koolhas perché l’Italia è un luogo di sperimentazione attorno al baratro. 

A livello sociale, forse a toccare di più sono due storie sulla Maddalena (un artigiano che lavora gli scarti che gli porta il mare; affiancato al fallimento del progetto di Boeri per il G8 raccontato dallo stesso architetto), due storie sui locali da ballo (uno, Nightswimming, firmato da Giovanna Silva che è anche una pubblicazione), uno sulle architetture effimere. Ci sono anche tanti spunti per riguardare la storia recente italiana senza la lente dell’architetto (tra cui un toccante episodio fotografico sul terremoto de L’Aquila, con Andrea Sarti che abbiamo incontrato ed intervistato alla vigilia dell’opening).  C’è ancora oggi per visitare la parte, forse, più bella della mostra (straordinario un lavoro di un architetto spagnolo che abbiamo intervistato, Andre Jacques, sull’urbanismo televisivizzato di Berlusconi, premiato da un Leone).
Ma Monditalia – il palinsesto culturale inserito nella mostra - è anche la parte più fallace, da un certo punto di vista, di questa Biennale. Nelle Corderie ci sono i vari palchi o teatri che l’architetto olandese ha costruito per ospitare in questi mesi le altre Biennali (curioso che chi pagava il biglietto di Architettura poteva vedere anche, di volta in volta, le proposte di Danza, Teatro e Musica ma non il contrario: si è trattato di annessione e non di unione di brand!). Insomma, una serie di “biennali” obbligate che però spesso non funzionavano: la questione è che le colonne di cui si inframmezzavano i palchi rendevano grandi pezzi di proscenio inutilizzabili – ma anche quanto fossero discutibili alcune proposte ospitate, tra cui film d’artista poco adatti o spettacoli di danza assai ripetitivi!


Non è solo la formula e gli evidenti problemi costruttivi che non ci hanno convinto, perché il problema è riempire quei palchi quando erano chiamati ad ospitare conferenze. I Week-end Specials e gli altri programmi di conferenze che sono state la spina dorsale di questa biennale (almeno sulla carta) erano spesso vuoti o non affollati quanto si dovrebbe, assolutamente ignorati dalla massa che magari era più interessata (ad esempio gli studenti) e lo staff del curatore, oltre a non aver progettato una promozione adeguata per un così mastodontico impianto culturale, non ha pensato ad una politica di prezzo accattivante per i visitatori ricorrenti (per i soli talk, dovevi pagare il biglietto intero di ingresso).

Non si può creare una biennale così performativa senza misurarsi con i limiti della macchina, del luogo, e di quanto esprime la città o l’intorno in termini di interesse o di marketing.

I padiglioni nazionali – unificati per la prima volta da un tema che il curatore ha proposto, Absorbing Modernity 1914-2014 – sono stati di sicuro l’episodio migliore di questa Biennale speciale (Koolhas ha avuto il doppio del tempo per progettarla rispetto a tutti gli altri architetti che hanno accettato l’incarico in precedenza). Per tante ragioni è impossibile fare una classifica perché il genius loci risalta ancora di più rispetto ad altre biennali in cui non vi era un tema unico. Due riflessioni sull’interior assai ben riuscite si trovano rispettivamente al Padiglione Spagnolo (curato da Inaki Abalos che, con la cruciale contribuzione di Accion Cultural Espanola, firma diversi progetti anche a Monditalia) e al Padiglione Belga. Il primo è Interiors  una ricognizione di interni di famose architetture (con gigantografie esplose nello spazio che diventano volumetriche). Il secondo è una ricerca, durata cinque anni, su come gli abitanti di housing modernisti personalizzino queste architetture assai conformate (una bella pubblicazione si accompagna alla mostra): le linee di continuità o rottura in questi interni assurgono a trama espositiva trasferendosi dalle immagini al muro ad elementi architettonici (sedie, librerie, pensili da cucina) che popolano e puntellano il padiglione semi vuoto.

L’Olanda, il paese della nazionalità del curatore, affronta una riuscita monografia su un designer seminale nello sviluppo del modernismo e del public housing, Jaap Bakema.

L’Austria lavora sul concetto di potere e democrazia, affrontando (e molti sono i contributi sui palazzi del potere, anche in Monditalia) una esposizione sul Parlamento nazionale che si confronta con il restauro del giardino del padiglione che viene attivato da un’installazione sonora molto ben riuscita (tra le firme: Coop Himmelblau, Auböck und Kárász, Kollektiv / Rauschen group questi ultimi per il sound design).

 

Gli Stati Uniti, forse, hanno al meglio interpretato il tema e hanno – con i limiti della struttura – tentato di dar vita ad un roster di eventi che è durato tutta la durata della Biennale (tra conferenze, dibattiti, screenings, fino al design di cocktail, profumi…).

 

Varcando la soglia del padiglione (si intitola OfficeUS), vi trovate in un edificio moderno intriso di un paradosso: è contemporaneamente una biblioteca vivente e un archivio contradittorio. Ospita la grammatica del potere e la sua controparte: le nuove generazioni che cercano costantemente di erodere questo ruolo o giocare a camuffarsi con esso.


La biblioteca costruita al suo interno per la mostra contiene tutte le architetture moderniste costruite al di fuori del territorio Americano da architetti americani nell’intervallo 1914-2014. Oltre a girovagare tra gli scaffali e consultare i progetti archiviati (esposti con un forte accento grafico, in qualche modo estremo, e pensati per essere agiti con alta usabilità, anche con parole chiave e confort spaziale, così che il pubblico rimanga quanto più possibile) ci si può attivare, senza per questo ricevere pressanti richieste, in uno spazio sovente popolato di studenti, performer e molti altri ospiti chiamati ad interagire ogni giorno con la mostra.


In realtà il canovaccio di OfficeUS inizia anche prima della visita, consultando il suo sito internet: l’agenda del giorno con gli eventi in programma, ogni documento relativo alla ricerca, spesso streaming in diretta o la possibilità di collegarsi con hangout (un servizio VOIP di Google), esplorare la consistenza della libreria e altri servizi, tra cui una colonna sonora attiva 24/7.


Certo, poi potevi decidere come unirti a loro, quando e per cosa. Ogni giorno andava bene in questo non-spazio.


Quello che non ti sfuggiva una volta visitato è che questo è il tempio del potere politico, economico e di rappresentazione dell’America in altri stati. La mostra ed il suo programma molto sottile (purtroppo non premiato con il Leone d’Argento) sono stati concepiti con un budget assai contenuti reso disponibile da diversi donor e curati da una no profit di New York, che si occupa di mostre d’arte e di architettura, lo Storefront.


Ho incontrato due dei sei giovani partner che ogni giorno si occupano dell’organizzazione e della realizzazione pratica di tutto questo: parlare e rendere visibile ciò che muove l’architettura e l’urbanistica. Privilegi travestiti a volte da democrazia, a volte dal modernismo, a volte da iniziativa privata con salati effetti sul pubblico.


I due partner sono Alon Schwabe e Daniel Fernández Pascual. Al di fuori dell’esperienza con OfficeUS, loro lavorano come aritsti e performer sotto il nome di Cooking Sections. Questa intervista va gustata doppia, switchando spesso tra una e l’altra.

 


Anche se la Biennale finisce oggi, il Media Center contiene una collezione molto utile di interviste per chi si fosse perso la mostra vera e propria.