Una palestra di scherma, questa la definizione 57ma Biennale arte firmata Christine Macel a Venezia

Come Documenta 13 uno scavo culturale tra biografia, performance e poetica. 615.000 visitatori

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Una palestra di scherma, questa la definizione 57ma Biennale arte firmata Christine Macel a Venezia

Come Documenta 13 uno scavo culturale tra biografia, performance e poetica. 615.000 visitatori

Apre il 13 maggio 2017 e chiuderà il 26 novembre la 57ma Biennale d’Arte appena visitata e viene da dire che un po’ tenti di assomigliare alla Documenta 13 firmata Carolyn Christov-Bakargiev non tanto e non solo per il posto preminente assegnato al ‘libro’ come oggetto e come media trans-culturale ma per il posto occupato dalla performance e dalla poetica/vissuto dell’artista.

 

La cura Christine Macel (main partner Swatch). Il gruppo di orologi in plastica svizzero continua a investire in arte e a supportare la Biennale ma affronta una crisi senza pari sui ricavi: il 2016 è l’anno peggiore di sempre da 20 a questa parte. Perde oltre il 10% per colpa delle basse vendite in Asia e per il super franco-svizzero, croce per le esportazioni di tutte le corporation elvetiche.

 

Macel parla correntemente anche italiano ed inglese, ricorderete che ha curato due padiglioni a Venezia (Francia, Belgio) e lavora per istituzioni pubbliche francesi - oltre ad insegnare, scrivere molto e amare la musica techno. Anri Sala, di cui aveva curato un ottimo padiglione, e Philippe Parreno (altro artista amato da lei e da Pinault, è il protagonista dell’opera in scena alla Fenice but made for Biennale) ci saranno a Venezia, nella lista dei 120 artisti, di cui 52 espongono opere nuove.
Per gli amanti delle statistiche (questa non è inserita nel comunicato stampa) ci sono equamente sia artisti giovani, sia artisti mid-carrier, sia artisti semi sconosciuti come fece Gioni (con spirito diverso) per Palazzo Enciclopedico ma anche artisti che ritornano pari-pari (come Ernesto Neto) presentando un progetto molto simile a quello che abbiamo già visto a Venezia (stavolta in chiave performativa coinvolgendo indiani d’Amazzonia per la prima volta avvicinatisi all’arte). E artisti passati a miglior vita. Di questo gruppo ne contiamo 11, tra cui ancora Franz West ed anche il misterioso Jan Bas Ader.

 

Molti artisti vengono da gallerie di New York. E tra gli outsider - nel senso tra i non mainstream - figura un’italiana (anch’essa morta di recente), Maria Lai che spesso ha lavorato con la poesia e che intreccia la sua storia con Venezia.

 

Molti artisti viventi si concentrano, su esplicito invito della curatrice, a veri e propri ‘re-enactment’ di lavori e performance fatti in passato, è il caso di David Medalla, che espone da solo e anche performa come Mondrian Fan Club.

 

La Macel fa una Biennale ecumenica e facile, a tratti noiosa e ripetitiva i cui artisti si snodano attraverso trans-padiglioni (lei preferisce chiamarli mantra, insomma noi azzardiamo isole di senso o di significati ma dopo averli visti non ne capiamo affatto la necessità od il significato assegnato loro dalla curatrice).

Non basati sulla nazionalità, sono coniati a partire da parole dirette come fossero capitoli di libri.

Ecco, il libro, torna come forma (media), spina dorsale, terreno di scambio, un pot-pourri in cui sicuramente ognuno ci vede qualcosa. Per cominciare (e dalla descrizione della Macel, meglio iniziare a guardare la sua sezione dai Giardini), il Padiglione Stirling si trasforma in una vera e propria biblioteca d’artista (Je deballe ma biblioteque/Unpacking My Library) dove gli artisti invitati da lei creano una sala dove sono donati libri seminali per la loro poetica. I libri non saranno anche usati per le performance, ‘non saranno letti, agiti: il posto per incontrare gli artisti è la Tavola Aperta’ ci risponde.

Insieme o dopo l’attraversamento dei trans padiglioni (alternativa all’individualismo esasperato degli artisti), il pubblico quindi può sedersi a tavola (ancora mistero sulle prenotazioni dei posti tavola).
Tutti i venerdì e sabato dietro il Padiglione Stirling (precisamente al lato destro del Padiglione Centrale, Giardini) gli artisti della sezione della Macel converseranno di loro e con il pubblico (prenotazioni sul sito della Biennale e al momento di acquistare biglietti) durante un pasto. Mentre i mercoledì o giovedì allo stesso desco sarà possibile incontrare gli artisti dei padiglioni nazionali (per chi non può, le Tavole Aperte e tutte le performance saranno in streaming sul sito della Biennale, dove troverete anche un video breve di ogni artista invitato: la collezione è anche raccolta in mostra, all’Arsenale).

 

Viva Arte Viva (logo, come il catalogo, rinnovati e disegnati da uno studio francese, de Valence di stanza a Parigi) cerca in modo immediato di distaccarsi dall’iper contemporaneo e dal mondo frenetico per operare un altro tipo di sguardo: un’esperienza intellettuale a capitoli sulla progettualità degli artisti.
Se Baratta dice che è un umanesimo nel quale l’atto artistico è sia resistenza che liberazione e generosità, Macel afferma che è un giardino, quasi un ultimo baluardo, da coltivare e frapporre alla indifferenza e all’individualismo.  Per aggiungere, subito dopo, che spesso l’individualità degli artisti intuisce e disegna il mondo di domani ‘dai contorni incerti, di cui gli artisti intuiscono meglio la direzione’.

 

Dopo il Padiglione dei libri, nel Padiglione Centrale (Giardini), Dawn Kasper trasferisce (non è la prima) studio e casa per vivere ai Giardini e di fronte a lei un’opera di Franz West (Divano) rappresenta il contraltare del negotium, l’otium. Gran ritorno anche di Olafur Eliasson, che proprio a Venezia aveva tenuto con Domus Academy un seminario con studenti e scienziati, Art Experience nell’anno in cui iniziava il suo progetto con TBA21 e David Adjaie esponendo a San Lazzaro il suo orizzonte di luce. Stavolta, proprio dove ha promosso in passato Little Sun ad una precedente Biennale, per Macel mette in scena il suo studio multidisciplinare che lavorerà da Venezia (anche con migranti). Un contraltare al negotium di Eliasson è, secondo le sue parole, il defunto Raymond Hayns che ha speso la sua vita a leggere, conversare e viaggiare.

Tra i nove trans-padiglioni della Macel (Gioie e Dolori; Padiglione dello Spazio Comune, della Terra) ci ha incuriosito quello delle Tradizioni dove non troveremo artigiani e designer ma artisti che lavorano tra vecchio e nuovo ed è qui che espone Francis Upritchard (1976) un’artista neozelandese (molto collezionata anche in Australia) che riutilizza tecniche desuete con un twist acuto ed esteticamente sempre convincente. Vive a Londra ed è la metà di Martino Gamper, designer altoatesino che lavora a sua volta sempre più nell’arte. Completano la lista dei ‘mantra’, il padiglione Sciamanico, quello Dionisiaco (dedicato al piacere femminile, all’estasi, alla sessualità e alla trance, sia quella derivata dalla musica sia dalla droga), quello dei colori dove la connotazione ‘da fuoco d’artificio’ come la definisce Macel dipende dalla trattazione del colore di tipo neuro-scientifico. E’ in questa sezione che vi consiglio di cercare i lavori straordinari di Karla Black che usa il colore a livello percettivo e sculturale. L’artista di Glasgow è rappresentata da David Zwirner ed ha esposto recentemente a Venezia (nel 2011) rappresentando la Scozia: ricorderete le sale di Palazzo Pisani invase da blow up di colori pastello che perdersi lì era un puro piacere sinestetico.

 

Chiude il percorso della curatrice una sorta di ‘performance arena’ (dove i Gelitin un po’ di Biennali fa avevano fatto sia la fornace che la barca dove guidavano nudi): i Giardini delle Tese alle Vergini ospitano 11 progetti di artisti che espongono anche altrove come Bruscky, Bleuter, etc. Mentre 16 performance si sono tenute in movimento durante la vernice (10-11-12 Maggio) all’Arsenale ed una di esse (quella dell’artista coreano Yeesookyung) è consistita in un concerto-processione di musiche tradizionali a Viale Trento-Garibaldi come aveva recentemente fatto Marinella Senatore (con musiche diverse) alla scorsa biennale, invitata da Creative Time.

Tra i padiglioni nazionali, 85 quest’anno, figura per la prima volta Kiribati (della storia dello stato a rischio per l’innalzamento dei mari ci siamo occupati intervistando un fotografo australiano), peccato che sia a Palazzo Bembo dove altri artisti (Lili & Jesko) ci hanno raccontato che sono stati derubati di un quadro la scorsa biennale. Ci auguriamo siano migliorati sulla qualità espositiva.

Grandi ritorni a Venezia, come Christian Marclay in questo caso co-curatore dello straordinario Padiglione Francese; Phyllida Barlow alla Gran Bretagna.

Le comunità resistenti hanno due degni rappresentanti. Un’artista aborigena per l’Australia (la film-maker e fotografa Tracey Moffat, commissaria la ricca imprenditrice nel fashion retail Naomi Milgrom AO, collezionista e mecenate). Bernardo Oyarzún per il Cile: porta in scena una cultura autoctona, quella Mapuche che è del centro del paese e di alcune regioni argentine. Una installazione di maschere 10x11m giganteggia nel padiglione e si accompagna alla lettura di proiezioni con luci led che scorrono cognomi di membri della comunità.

Tra gli sponsor il gruppo immobiliare italiano di Catella (COIMA) che dichiara di sponsorizzare gli italiani scelti da Macel: la già citata (defunta) Maria Lai, poi Salvatore Arancio, Irma Blank, Michele Ciacciofera, Giorgio Griffa, Riccardo Guarnieri (questi ultimi due li troverete nel padiglione dei colori all’Arsenale).


Come delude un po' la Biennale, così delude l'assegnazione dei premi. Se meritato era quello ad Hassan Khan, come giovane artista promettente e al Padiglione Tedesco con Anne Imhof  (soprannominato 'dei cani' per la presenza di due giovani dobberman nella gabbia antistante), meno meritato il secondo premio al padiglione tedesco e tutti gli altri. Sarebbe potuto, stavolta, essere meritatamente premiato quello italiano in particolare per le straordinarie prestazioni di Cuoghi - che riflette sul senso puro della caducità, della fattura e della decomposizione - e di Giorgio Andreotta Calò, che incarna Brodsky, Ruskin e la sua idea di Venezia in un gioco di specchi, acqua, architettura e delicatissime sculture che dal mare vengono.

 

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Come per ogni finissage, il week end di chiusura della Biennale (ultimo giorno per visitarla: domenica 26 novembre, con biglietto di ingresso scontato ai veneziani) è ricco di incontri, pranzi d'artista e eventi fuori e dentro i padiglioni e gli eventi collaterali.

 

Ataraxia, il Salon Suisse di quest'anno curato da Koyo Kouoh, offre un ultimo week end di performance ed incontri che vede Marco Lutyens e Megan Rooney sul palco con una doppia performance (Without Poetry Nothing is possible) venerdì 24. Lutyens sarà anche alla sede veneziana della francese Galleria Alberta Pane sabato 25 e al Museo Fortuny (all'interno della mostra Intuition). E Salon Suisse continua anche domenica sempre dalle 18.30, mentre prima alle 15 in Sala d'Armi all'Arsenale Macel e Baratta riveleranno numeri e impressioni in chiusura di mostra.

Le gallerie cittadine offrono finissage delle mostre in corso ed eventi speciali. Se l'avete persa, merita la doppia mostra sul vetro contemporaneo da Caterina Tognon (che mette insieme due artiste dal tocco e dalla ricerca agli antipodi entrambe per un risultato straordinario: ultra verista per Lilla Tabasso ed astratto per l'australiana Jessica Loughlin). Da segnalare una performance di Anita Sieff sabato 25 da Beatrice Burati.

 

Se non ancora avete visto le uniche (poche) cose che val la pena non perdere, ecco la nostra mini guida nelle sedi principali (molte delle mostre collaterali veramente interessanti hanno chiuso a settembre, museo Fortuny a parte). 

Ai Giardini, la fotografia analogica regna sovrana al Pad. Belga con Dirk Braekman dove è straordinario anche il light design. Del pari al Pad. Australiano di cui vi abbiamo già detto. Mettetevi in fila di buon mattino per assistere alla versione lunga (e più ricca) della performance al Pad. Tedesco (a proposito, hanno cambiato i cani, erano troppo giovani e poco gestibili i dobbernan dell'inizio mostra). Mentre siete in fila (se avete qualcuno che vi tiene il posto), passate al padiglione della Corea del Sud almeno per vedere The Proper Time l'opera più bella, firmata da Lee Wan uno dei due artisti in mostra: una sala piena di orologi che mostra a tutte le latitudini quante ore di lavoro occorrano per sopravvivere.

Il padiglione sulla nostra hit list per tutti questi mesi è stato (e resta) il Canada con un'opera enorme, complessa eppure che va dritta al cuore firmata dall'imprendibile Geoffrery Farmer. Tramortito dalle demolizioni programmate e avvolto in un gioco astuto e preciso di sculture in bronzo (anche una fontana da cui bere), il padiglione è quello che in maggior e miglior maniera ha disvelato il mondo interiore dell'artista (non dimenticate di cercare il testo dell'artista, passando in mezzo ai getti d'acqua: è in favor di laguna. E i getti hanno una temporizzazione tale che vi permette di farlo).

Se non avete ricordato di cercare quale artista performa questa settimana al padiglione Francese compulsando la pagina facebook dell'artista (unica fonte del calendario tutti questi mesi che han visto Bosetti, gli Airi e tanti altri alternarsi in ritmi forsennati), scopritelo di persona - prima di migrare verso l'Egitto e la sua storia di superstizioni in video. Dato che siete dal lato giusto, non dimenticate la prima parte del Padiglione Austria con Erwin Wurn cercando non tanto il selfie a tutti i costi ma la lettura di micro messaggi che trovate ad ogni opera. Se avete tempo (e non avete asma o allergie) passate al Padiglione Israele dove la cosmogonia di conquista è tracciata con muffe e caffè.

All'Arsenale, l'unica artista con lavori che hanno lasciato il segno della selezione di Macel (ed infatti era massicciamente presente a Frieze), è la belga Edith Dekyndt, si trova poco distante dall'altro artista molto acclamato, Peter Miller con il suo Stained Glass

I padiglioni che hanno qui riscosso più successo (oltre l'Italiano, per una volta al primo posto per molti commentatori ed addetti ai lavori) sono quello del Sudafrica con due sezioni ben distinte (non perdete l'ultima), quello della Turchia e, davvero imperdibili, dell'Irlanda (la performance si ripete ogni pochi minutil vale la pena di conoscere l'artista) e Nuova Zelanda.

 

- - - Una palestra di scherma e di fioretto, le cifre ufficiali alla chiusura della 57ma Biennale Arte - - -

 

L’ultimo giorno della biennale è sempre riservato alle cifre ufficiali e alle sensazioni a caldo dopo tanti mesi espositivi oltre lo spazio per coniare nuovi nomi per l’illustre signora - una kermesse, un festival ovunque imitato e vecchio quasi un secolo e un quarto - che quest’anno (dopo la macchina del vento di qualche edizione fa) viene affettuosamente ribattezzata una palestra di schermo e di fioretto.

 

Per una istituzione longeva che non acquista pubblicità da sempre e che al massimo piazza due banner a mo’ di festa di paese (parole di Baratta) nella città in cui e’ nata e dove si svolge sin dalla prima edizione, avere un incremento annuale di visite sempre a doppia cifra è un vero risultato. 

E lo è ancora di più considerando che quest’anno il +23% di visite rispetto alla scorsa biennale arte si attesta a 615.000 (e oltre) visitatori. E che ottobre e novembre (9 settimane) hanno superato il numero di visitatori boom dei tre giorni di opening. In realtà non è del tutto vero che la Biennale non investe in comunicazione, perché da qualche edizione la Biennale ha effettuato un cospicuo investimento in comunicazione media, presentando il festival (almeno quello d’arte) in varie città del mondo e potenziando - come mai prima - i canali social e internet.

 

Le cifre di pubblico a Venezia, secondo gli organizzatori, sono da considerarsi molto positive anche alla luce del fatto che essa vive in un’isola di meno di 60.000 abitanti e non è circondata da un territorio denso come potrebbe essere quello parigino (il riferimento è a Christine Macel, direttore artistico uscente, che è conservatore del settore moderno e contemporaneo al Beaubourg) che può contare su una rosa di potenziali visitatori pari a 12 milioni.

 

Un particolare accenno va alle giovani generazioni, come sempre. La Biennale ha avuto una dote di visitatori under 25 molto spinti dal rapporto con le scuole che ruota attorno ad un ‘club’ di circa 3000 insegnanti che la Biennale ha costituito e a cui dedica attenzione e formazione prima della visita degli studenti stessi.

 

Veniamo alle impressioni sull’arte, agli artisti (meglio) a cui questa biennale era totalmente dedicata. Macel, una volta di più, prende le distanze dal mercato dicendo che non è affar suo in quanto lei è una conservatrice di mestiere: intanto le gallerie producono le opere degli artisti invitati e il mercato passa ‘sotto il naso’ della Biennale che si accontenta dell’aiuto in produzione senza forse considerare che sia giunto il tempo per rielaborare uno o più sistemi e dare seguito diverso al ruolo che ha già. 

Ogni artista che arriva in biennale vede cambiare le sue quotazioni e chiaramente ogni nuovo direttore artistico ha una relazione stretta (ed onnivora) con il mercato.  A proposito di mercato, Baratta ha usato un’espressione assai colorita per definire Art Basel, la famosa fiera internazionale che si svolge ogni anno tra Basilea e Miami: il ‘nido del cuculo’ sulla Biennale…Quasi una sanguisuga? 

Non per forza rimettersi a ‘vendere’ come faceva prima con l’Ufficio Vendite interno, ma di sicuro sarebbe auspicabile che la Fondazione inizi a tessere più di una rete verso il collezionismo internazionale. Sempre non dimenticando il suo ruolo guida nella cultura dell’arte che ça va sans dire le viene dalla storia e dal lavoro di pioniere che esercita.

 

La formula più innovativa di questa edizione è stata da più parti citata come quella del ‘desco’ d’artista, i pranzi periodici con gli artisti che Macel ha introdotto e scadenzato con un preciso calendario oltre che affiancarli con una bacheca video per chi non presente volesse guardarli da lontano. Una curatrice cittadina ha ipotizzato restino come ‘formula fissa’. Di sicuro la curatrice francese (che ha parlato e risposto solo in francese) non ha obiettato e ha aggiunto che sono state qualcosa di diverso dalle già classiche conferenze unico luogo di solito destinato all’incontro tra pubblico e artisti: meno mediate e più spontanee. E ha amato soprattutto ricordare l’effetto meditativo e a lungo termine delle oltre 50 opere prodotte per quest’edizione, in particolare ricordando il potere evocativo di Hassan Khan, che alla fine della Biennale ci trasporta quasi in volo con un’impronta alla Rousseau. E infine il lavoro di Sheila Hicks (la sua opera era già stata esposta a Design Miami 4 anni fa) con il suo accento sulle reti sociali. Senza dimenticare la Casper, che rappresenta in apertura di Biennale l’ozio creativo e riflessivo a lei (e a Baratta) tanto caro. E tutti gli artisti che hanno contribuito con video teaser pubblicati nei tre mesi prima dell’apertura del festival.



#BiennaleArte2017