documenta 14, learning from Athens: austerity e digressione nella perdizione.

fino al 16 luglio ad Atene, fino al 17 settembre a Kassel

sezione: blog

10-06-2017
categorie: Design, Architettura, Arte, teatro, performance, Non profit,

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documenta 14, learning from Athens: austerity e digressione nella perdizione.

fino al 16 luglio ad Atene, fino al 17 settembre a Kassel

Più che uno scambio, è un rapporto simbiotico tra due modi di governare e tra due mondi tenuti distanti dalla politica: in mezzo tutto l’umano scibile non solo la politica e le dittature ma anche aspetti più intimisti dell’essere individuale e dell’essere cives. Questa, in estrema sintesi, è Learning From Athens (documenta 14) e i due ‘mondi’ unificati e tradotti dall’arte sono quello dell’austerity e quello della digressione nella storia e nella perdizione.

Si parla quindi di due città – Kassel ed Atene, entrambe teatro invertito della mostra – che attraverso l’arte percorrono una strada assai inedita di affiliazione e fratellanza. E’ forse la documenta più politica di sempre, con le sue sterminate mandrie di location per l’arte (sia ad Atene, dall’8 aprile al 16 luglio, dove si sono già registrati 244.000 visitatori alla data dell’apertura della mostra a Kassel, 10 giugno, dove resta visitabile fino al 17 settembre) e una serie di iniziative che arrivano anche a coprire performance audio ed un canale radio che ‘occupa’ con un calendario prestabilito le frequenze di radio pubbliche e commerciali in vari paesi del mondo. Tante le iniziative collaterali di eventi e seminari come Parliament of Forms.

 

180 sono gli artisti a Kassel, dispiegati in 30 luoghi – tra cinema, università e vecchi uffici postali (il Neue Neue Gallery), le principali istituzioni d’arte cittadine, le stazioni, il tunnel ed i parchi cittadini come il Karlsaue dove le opere sono, in controtendenza rispetto alle precedenti edizioni, ‘solo’ quattro (e due le straordinarie, un’incisione poetica di Lois Weinberger e dei sognanti speaker galleggianti sul canale di Benjamin Patterson).

Il direttore artistico, Adam Szymczyk, suggerisce un percorso nella sterminata serie di location a Kassel (sia se avete visto Atene, sia no) e una pianta è stata redatta per aiutarvi, sebbene qualche difficoltà nei giorni di opening si è registrata (cartellini delle opere mancanti, opere ancora in montaggio e nessuna segnaletica nel parco: dove le opere sono vicine ma non di facilissima identificazione). Più importante della pianta quest’anno è secondo noi un booklet che è distribuito in forma gratuita ed ha tutte le mostre divise per venues ma, soprattutto, la checklist degli artisti per nome. Ogni artista invitato infatti espone in più location – ad esempio Olaf Holzapfel ha una scultura nel parco ed un intero piano al Palais Bellevue.

Noi abbiamo deciso di iniziare diversamente da quanto suggerito, cioè dal Partenone dei libri, opera straordinaria al centro della piazza principale, quella del Fridericianum. Si tratta di un processo partecipativo (i libri sono donati dai visitatori tra quelli messi al bando nei loro paesi). Al principale museo della città, sono esposti quasi tutti artisti greci selezionati dal Museo di Arte contemporanea Ateniese e sono per la maggior parte mid-carrier, talvolta anche più giovani. Ci hanno colpito, in ordine di entrata: Acropolis Redux una scultura di filo spinato del 2004 di Kendell Geers; il mini cinema di Olivier Ressler che ospita video sulla democrazia e tanti lavori su legno che mimano architetture od oggetti funzionali (tra cui Life Without Democracy, un’opera del 2009 di Kostis Velonis e più avanti, un bel lavoro sulla memoria e sulla biografia di Maria Loizidou mentre è imperdibile, stavolta al Palais Bellevue, il lavoro dell’australiana Bonita Ely sullo stesso genere, Interior Decoration: Memento Mori 2013-17 e quello di Pelagie Gbaguidi di Dakar, sulla pedagogia che occupa un’intera ala alla Neue Gallery).

Domina nelle sale anche una sola scultura cinetica (attivata da un magnete) dell’artista Takis, si chiama Gong ed è del 1978. Storia, e sala a sé, per le tele luminose di Stephen Antonakos (un lavoro del 1987) e grande prova scultorea ultra-verista del più giovane (classe 1974) Andrea Lolis che con Shelter (2013-2016) ricrea oggetti di uso comune, quasi rifiuti, con il marmo. Una sezione cospicua è dedicata ad Emily Jacir, anche essa in collezione del museo ateniese, dove spicca una grande tenda le cui pareti sono incise da nomi di villaggi palestinesi (418) distrutti e svuotati dalle forze di occupazione israeliane nel 1948. Dello stesso tema, ma sono litografie, i lavori di una giovane leva (classe 1980) sempre in collezione del museo ateniese. Si tratta di Eirene Efstathiou che presenta Anniversary (2010), 36 litografie che ritraggono immagini trovate dell’occupazione degli atenei ateniesi in seguito al putsch dei Colonnelli (tema che ritorna in moltissimi lavori in mostra). Tra i lavori degli artisti non greci in collezione al Museo, anche Carlos Garacoia con un set di immagini fotografiche in bianco e nero e Jan Fabre, con una scultura molto ammirata, Listening inside my own Head (1982). Tra i migliori lavori in ceramica (quasi assente), A Glacier at Our Table (2013) di Nikos Tranos. Poco distante, Costas Varotsos lavora con immagini di bandiere stampate in digitale su vetro e distrutte a mò di bottiglie infrante (Untitled, 2017). Il sottoscala del Fridericianum è dominato da un lavoro straordinario – e prodotto per l’occasione – dell’artista greco Andreas Angelidakis (si tratta di Polemos, un carrarmato fatto di cuscini assemblabili a piacimento). Lo stesso artista firma una ‘stanza’ delle architetture interiori – mozzafiato sia per la generale atmosfera sia per il design di strani ed inediti quadri retro-illuminati – allo Stadt Museum.

 

La fotografia è tra i generi meno presenti, ma quando c’è e non è documentativa (che abbonda), presenta opere straordinarie. E’ il caso di George Hadjimichalis che presenta Crossorad. The Crossroad Where Oedipus Killed Laius….(1990-95/1997), un’installazione composta da un tavolo enorme d’acciaio con il piano ossidato e ‘sporcato’ di resina e pigmenti. Tutto attorno, una serie di foto che esplorano la superficie del tavolo, che sembra un canyon, un deserto e molto altro ancora.

E’ anche il caso di Hans Eijkelboom che allo StadtMuseum presenta Photo Notes 1992-2017, un lavoro gigante di ritratto di generi. Uomini, donne, giovani, accostati per un particolare anatomico, per un outfit o per altre similitudini, ritratti in piazze e strade europee (ogni gruppo di immagini reca ora e luogo degli scatti). L’effetto ‘moltiplicativo’ è spiazzante ed è veramente simbiotico del lavoro di questa documenta 14, l’indagine sul genere umano straziato da mode e da mancanza di spazio democratico.

La performance, soprattutto teatrale ed in video, è il media che domina in questa quinquennale. Ne abbiamo vista tanta, difficile scegliere e difficile escludere. Tra le più emozionanti, se non la più emozionante (in collaborazioni con istituzioni teatrali ateniesi), c’è quella dell’austriaco Peter Friedl, Report (2010). E’ basato su A report to an Academy di Franz Kafka, commissionato e prodotto da documenta.
Tra i performer puri, grande attesa per il lavoro di Regina Josè Galindo del pari allo Stadt Museum (una sua performance in video, La sombra, è presente anche al Palais Bellevue). Si tratta di El Objectivo prodotta per documenta e fortemente critica del ruolo della Germania come principale paese esportatore di armi. Si tratta di una grande stanza bianca con quattro fucili d’assalto automatici. Lo spettatore è chiamato a ‘resistere’ 3 minuti nella sala con gli altri che gli puntano i fucili contro.
Un lavoro di ricostruzione ‘storica’ di performance è quello di Mary Zygouri, che si occupa delle pieghe di microstorie e presenta il caso di una famosa performer ateniese (il cui studio è stato misteriosamente bruciato da un incendio quindi l’intero archivio è andato in fumo), Karavela, rifacendo una sua famosa performance, Kokkinia, datata giugno 1979.

Un lavoro che mischia un astuto video design e letteratura, la forma libro-testuale ed altro ancora, è quello del greco Constantinos Hadzinikolau, con Woyzeck alla Neue e sempre lì, quello dell’indiano Amar Kanwar con cinque retroproiezioni su carta fatta a mano.

Se cercate invece una documentazione antropologica di grande spessore e una matura ed impeccabile cinematografia, tre sono gli artisti da non perdere, avendo ovviamente abbastanza tempo per vedere dall’inizio alla fine i loro ottimi lavori. Sono tutti al Naturkundemuseum in Ottoneum, si tratta di Ariuntugs Tserenpil, Khvay Samnang, Rosalind Nashashibi.

Se non avete tempo, saltate sia il museo Grimm che quello delle Sepolture ed invece concentratevi sulle enormi esposizioni alla Neue e alla Halle.


Il porno e l’immagine del corpo femminile o del travestitismo sono presenti con lavori eccezionali in varie sedi espositive.

L’americana Eva Stefani lavora con la sottrazione e crea uno straordinario film in super 8 (Virgin Temple, 2017, 2’50’’): non perdetelo, è al Palais Bellevue e viene a simbolizzare non solo la grecità ma anche la grazia mutilata del corpo femminile (le parole sono di una famosa scrittrice).

La sudafricana Tracey Rose (imperdibile è Cleopatra was a Black Bitch alla Neue Neue) lavora con performance in video in cui mischia le icone porno classiche ed una finzione letteraria che si sovrappone alle prime e modifica il senso comune del linguaggio porno per portarlo in altre zone culturali e della mente.

 

Le americane Anne Sprinkle e Beth Stephens, entrambe femministe e la prima anche attiva come porno-peformer, portano i loro manifesti sull’amore e sul sesso alla Neue Gallery (dove occupano un’intera stanza e dove vedere altri 88 artisti, inclusa una sezione molto bella su Maria Lai, una raccolta di film sperimentali di Maya Deren, una curiosa sala dedicata a Lorenza Bottner, e lo straordinario archivio audio di bisbigli di Pope L., americano, Whispering Campaign più la collezione permanente…).

 

Esperienza molto riuscita è quella alla KulturBanhof, dove in un tunnel della stazione (ora in disuso, fu costruito proprio per migliorare l’accesso a Kassel per i visitatori di documenta nel 1968) sono stati installati lavori di 5 artisti, tra cui le proiezioni su 14 canali di Michel Auder. Percorrendo il tunnel ci si trova a poca distanza dalle altre sezioni di documenta in questa area, di sicuro la più mastodontica dopo il Fridericianum è la Neue Neue Gallery (già utilizzata in precedenza). Un vecchio ufficio di smistamento postale è letteralmente invaso in ogni centimetro da 25 artisti, molto rappresentata è la performance (anche quella con un sapone prodotto a Kelemata in Grecia, venduto a 20 euro, fatto di olio di oliva e pigmento nero, effetto marmorizzato, del nigeriano Otobong Nkanga) di stampo corporeo e teatrale: su ogni piano le danzatrici di Maria Hassabi ma anche il design audio e la produzione di ‘marketing territoriale’ della serba Irena Haiduk (1982) che con SER (Seductive Exacting Realism, 2015) domina un’intera area della ex fabbrica.

Due sono i lavori basati su processi e atti giudiziari qui esibiti, quello di Maret Anne Sara che documenta il lavoro di suo fratello che ha citato in giudizio lo stato norvegese per l’abbattimento selettivo di renne (son in mostra anche gli scheletri di renne) e quello di Forensic Architecture (the Society of Friends of Halit) che racconta di misteriosi omicidi di immigrati che non sono mai stati risolti nonostante i molti indizi.

Il design è presente con l’artista più interessante della mostra, classe 1975 del Kurdistan, Hiwa K che in collaborazione con la locale università costruisce uno shelter all’imbocco del parco di fronte alla Documenta Halle. Si chiama When We Were Exhaling Images, è fatto di una serie di tubi vitrificati per condotte acquee in cui sono stati alloggiati camere da letto, librerie, bagni, cucinini….Un ottimo lavoro video firmato da Hiwa K e che riflette sull’architettura di Kassel è allo Stadt. La topografia su cui le indaga è quella di una città bombardata. Non solo il suo paese ma anche Kassel fu quasi tutta distrutta nel 1943.

 

Non può che lasciare incuriositi anche un’altra opera, una porta girevole che diffonde rumore rosa. Autore il collettivo Postcommodity (fondato nel 2007 da artisti del sud degli USA tutti nati intorno al 1970 e che lavorano con il suono), il lavoro si chiama Blind/Curtain. La porta emette un suono casuale, detto appunto rumore rosa, che possiede la stessa energia per ottava e quindi ha molte più basse frequenze del cosiddetto rumore bianco. E’ un peccato che i mediatori culturali non sapessero cosa significasse quest’opera (moltissimi non sapevano cosa raccontare al pubblico, soprattutto in mancanza di courtesy: spesso i cartellini delle opere erano staccati durante la vernice). L’obiettivo dei suoi creatori (che espongono anche un’altra opera ad Atene) è creare una ‘fessura’ percettiva in grado di rilassare, passando dalle orecchie al cervello. A maggior ragione varcando la porta di un’istituzione come la Neue…


L’opera che ci ha lasciati con il maggiore carico emotivo (non è di facile lettura, occorre immedesimarsi e non avere fretta) è di un’artista libanese che vive tra Beirut e Amsterdam, Mounira Al Solh. Si trova nella zona delle ‘Glass House’ vecchi negozi riattati da diversi artisti, per lo più performer, a metà strada tra il tunnel e la Neue Neue. Al Solh lavora con la performance, spesso con temi relativi al femminismo, con il disegno ed altri media ed è stata sostenuta dalla Mondriaan Foundation e dalla fondazione Ammodo (ha già esibito alla Biennale di Venezia ed in altre importanti collettive).

Oltre ai lavori ad Atene, presenta a Kassel I Strongly Believe in Our Right to Be Frivolous. E’ una serie di disegni fatti ad immigrati incontrati nelle due città durante la loro transizione tra lo status di rifugiato a quello di cittadino. E presenta anche Nassib’s Bakery, una panetteria (dal design straordinario nella sua povertà) dove incontrare una storia e mille altre, che arrivano inattese come un pugno nello stomaco.

Il disegno è presente in molte sedi espositive ed è attorno a diverse epoche ed esponenti artistici. Ci ha colpito il tratto ed il gesto dell’artista ucraina (scomparsa) Erna Rosenstein alla Neue, in una sala dedicata con nove lavori.