Un palazzo, una città – e un destino di un declino chiaro (e noto) da almeno 300 anni.

In uscita il 3 ottobre il volume extralarge del Fondaco dei Tedeschi (Venezia, OMA/AMO)

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Un palazzo, una città – e un destino di un declino chiaro (e noto) da almeno 300 anni.

In uscita il 3 ottobre il volume extralarge del Fondaco dei Tedeschi (Venezia, OMA/AMO)

 

In occasione della presentazione di un volume extralarge (e dal peso notevole) che sarà nelle librerie dal 3 ottobre prossimo, Rem Koolhaas e gli architetti del suo team che hanno curato il restauro e la riedificazione del Fondaco dei Tedeschi per la società immobiliare della famiglia veneta Benetton (Edizione Srl), hanno raccontato – in pillole – cosa vedremo tra brevissimo a Venezia, accanto al ponte di Rialto, nel più chiacchierato restauro mai accaduto in città.

 

L’affaire Fondaco è quello per cui si è montato un caso ad arte per le convenienze di molti: una Sovrintendenza ringalluzzita dal nome dell’archistar di turno, una sindacatura assente (e corrotta, come si vedrà poi), architetti delusi dalla committenza, committenza delusa dagli architetti, carte sparigliate e tante verità in mezzo ad un incredibile fraintendimento (quella ab origine, dell’acquirente a prezzi stracciati, del palazzo, che forse non ha mai pensato di gestirlo).

 

Un auditorium gremito (Koolhaas deve amare particolarmente la creatura di Scarpa, la Querini Stampalia, dove qualche anno fa presentò un libro di Renata Codello, unica ‘veneziana’ citata in conferenza: la definisce, la Querini di Scarpa, l’esempio più coerente di preservation in cui simbolismo, interpretazione di qualità locali e materiali sono combinati in un unico assai poco convenzionale’ al contrario di restauri posticci in cui il guscio esterno resta lo stesso e tutto cambia, in maniera blasfema, all’interno), procedure bizantine per l’ingresso e tanti curiosi che addetti ai lavori non erano – questa in sintesi l’aura di una conferenza dove il povero Koolhaas ha dovuto chiedere al suo brillante collaboratore di provvedere alle traduzioni, almeno delle conclusioni, degli inesorabili Dal Co e compari che di parlare inglese proprio non si riesce.

Se soporifere sono state le presentazioni, inutilmente dottorali, di chi firma saggi in italiano per un volume che si auspicherebbe internazionale almeno per la tipologia di monumento (il Fondaco) che è nato internazionale, quella di Koolhaas e colleghi ha dato una serie di interessanti spunti (resi ancor più piccanti da un supposto momento di frizione tra il committente e l’architetto).

Si chiama anche last rescue system, certo, perché il Fondaco che vedremo dal primo ottobre (stampa e VIP lo stanno visitando in questi giorni), è un mall gestito da una duty free agency che fa capo al gruppo LVMH di Arnauld (che in città ha già l’Espace e si contende, con stile totalmente diverso, la presenza commerciale e quella culturale con l’altro francese-veneziano, Pinault). Koolhaas non firma l’interior design e, a parte avere dubbi sulla tenuta contrattuale (forse) dell’affaire, mette tutti i puntini possibili sulle ‘i’ per raccontare della sua paternità ed evitare figli ‘abusivi’.

Ci si chiede da che parte stia l’’editore’ in tutto questo – quello del volume, ElectaArchitettura, e quello dell’architettura, Edizione Srl, beninteso entrambi diversi dall’occupante che fa il suo business senza pensare molto ad altro – e dalla conferenza di presentazione non l’abbiamo compreso.


Koolhaas ha raccontato (prima in inglese tradotto da Ippolito Pestellini Laparelli, che era anche il suo braccio destro durante la Biennale di Architettura che aveva curato a Venezia, poi ha lasciato dire solo a lui in Italiano per accorciare i tempi) che il restauro oggi non ha più senso nell’accezione comune finora utilizzata (non a caso la parola preservation ha significati diversi, più simile a conservazione: ‘come era, è’) soprattutto perché diventano ‘heritage’ - e quindi monumenti per le più svariate ragioni - anche edifici nuovi, appena costruiti.

Le storie e la storia della disciplina, così come esaminata dallo studio OMA, vengono a modificarsi sensibilmente e quello che ha interessato lo studio è stata la restituzione, in toto, delle anime dell’edificio che era a seguito di almeno due importanti restauri occorsi nella lunga vita (il Fondaco è del 1200), ed a seguito di un protratto abbandono. Un restauro ‘rinascimentale’ nel 1500 e soprattutto quello brutalista o fascista del 1930 quando è stato trasformato in edificio delle poste (in mezzo a questi due c’era quello napoleonico, che lo trasforma in dogana), condizionato da molto cemento faccia-vista che lui ha amato e ovviamente lasciato, oltre ad aggiungere volumi (di carico e di trasporto) che ovviamente ne hanno previsto dell’altro.
L’operazione OMA è stata anche quella di rinforzarlo. E di riscoprire tutti i materiali salvabili dell’edificio (e, soprattutto, restaurare l’ultimo piano riconfigurando il soffitto della terrazza coperta) addizionando metalli le cui ossidazioni controllate conferiscono incredibile modernità (come il tanto criticato ottone, definito bling bling da frettolosi giornalisti locali, che in alcuni casi raggiunge il blu).

Il Fondaco è stato costruito da Tedeschi per tedeschi, era un edificio ‘d’oltralpe’ prima e lo è oggi. Ha avuto un padrone straniero e una serie di architetti stranieri sin dalla nascita. E’ stato un luogo di commercio e ritorna ad esserlo, dopo anni di abbandono (il progetto nasce in un’aula di Harvard in un corso dove insegnava nel 2009, ma inizia veramente nel 2013 non senza un mare di polemiche che costringeranno l’olandese senza compromessi a rimangiarsi, tra l’altro, la sua creatura preferita, una scala mobile periscopica). Chi lo compra è una famiglia della terraferma che però decide di usarlo come investimento immediato, scommettendo propriamente sulla firma dell’archistar.


Lascio leggere a voi i corto-circuiti in questa storia, vari e diversi, fatto sta che Venezia è in declino inarrestabile e neanche il Fondaco la salverà.

Tornando al libro, dalla grafica impeccabile e dal peso notevole (circa 2,4 kg: ogni ospite della sua presentazione ha ricevuto una costosa copia in omaggio), si apre con una accorata prefazione di Gilberto Benetton – uomo della terraferma che cammina a più riprese nell’edificio e che quando Poste SPA se ne sbarazza, partecipa all’asta e la vince, unico offerente!
Le radici del Fondaco, le fondamenta, si intrecciano come dice lui al Ponte di Rialto stesso. Restaurato da un altro figlio della terraferma, il veneto a capo di OTB, Renzo Rosso. La più cheap campagna di pubblicità alla ‘stupidità’ mai pagata, considerando gli oltre 30 milioni annui di turisti che passano sotto i banner sistemati da Diesel sulle campate del Ponte e le millemila altre forme di utilizzo del finanziamento al restauro.

Se siete appassionati di storia, Elisabetta Molteni spiega in Italiano la storia del Fondaco, subito dopo la prefazione di Benetton. In 67 pagine ed oltre, le conclusioni sono banali e, riassumo, dicono che l’architettura è di chi la vive, non basta il nome dell’archistar che l’ha firmata.

Dal Co si dedica ad una shakerata di storia – molto belle le citazioni da Marx - e alla enumerazione di una serie di paradossi (a me personalmente non pervenuti). Nella praticità, enumera che i dissidi OMA/Edizione accadono nel 2014 quando il cliente dello studio olandese vende la gestione del Fondaco alla società di Arnault (non l’avevamo ancora citata, è la DFS). Il progetto definitivo dell’architetto data solo un anno prima (mortificato rispetto alle idee più geniali, quali la già citata una scala mobile a mo’ di ponte levatoio che poteva lievitare lasciando il cortile libero del tutto da condizionamenti spaziali. E una vasca a posto della super-altana che è diventata la terrazza: entrambi gli spazi sono la quota di spazio pubblico e culturale che DFS dovrebbe concedere alla città). E, ricorda ossequioso Dal Co, sarà snaturato dagli arredi che firmano altri, incaricati da DFS di completare gli interior, non di spettanza a Koolhaas sin dall’inizio? La domanda rimane aperta sicché non abbiamo ancora completamente scoperto cosa interviene sull’assignment a Koolhaas da quando Edizione passa il Fondaco a DFS.

Finalmente, a pagina 105 si inizia a parlare di design, incluso lo strategy book (in forma di rivista, FDT, il cui logo di testata ricorda quello di Flash Art ma sarà il font simile) di AMO e tutte le foto di cantiere ed il palazzo finito (molto belle quelle di Delfino Sisto Legnani), oltre che le tavole di progetto e una miriade di foto storiche. E si parla di dati, oltre che di storia ed interpretazione di uno spazio e di una città, considerando il luogo dove lo spazio si inserisce, non solo topico ma anche fenomenologico e sociale.


Una città dove, finora, una piazza (per giunta coperta da un ceiling performante di vetro e acciaio a luce controllata con computer e cassaforma libera come le Terme di Vals di Zumthor, pavimentata di fresco in marmo rosso di Verona e pietra d’Istria) non esiste (fatta esclusione per Piazza San Marco, piegata ancora di più alle esigenze del commercio e da bieche curatele di quanto sarà il Fondaco, soprattutto per gli orribili palchi del carnevale, ma lì la Sovrintendenza sarà in vacanza).

E dove una ‘terrazza democratica’ (vorremmo crederlo, ma non sarà così) non esiste. A meno che non doniate soldi a hotel, organizzatori di cene, Redentori, etc, non esiste una terrazza panoramica a Venezia ed i pochi e affordable bar che ce l’avevano hanno chiuso. Tornando al progetto più cogente, last but not least OMA sceglie Viabizzuno per le luci.

 Su 9159 metri quadri totali, 2.657 sono di tipo non commerciale, quindi pubblici (anche se all’interno di un mall). Ed è diventato un mall perché OMA ha suggerito a Edizione di non farci un albergo di lusso. Nelle sue intenzioni, doveva essere un mall utile e desiderato non solo da turisti ma anche da locali, considerando come la città/parco giochi stesse schiacciando la residenzialità per via degli immensi flussi annuali. In ogni caso, come spiega nella succinta introduzione, Koolhaas dice che il progetto non ha raggiunto il suo massimo potenziale. E che, in sostanza, non si rispecchia in quella ‘parafernalia’ che dal 1 ottobre potremo vedere e che costituisce qualcosa di ‘stravagante’ al servizio degli appetiti da shopping di ‘ricchi turisti’ (sono sue citazioni).

In qualche maniera, anche Koolhaas ama certe parafernalia, ricordo quella di far chiudere il Canal Grande alle barche di notte durante l’opening della sua Biennale di Architettura per i trasporti eccezionali del cantiere. Sinistra coincidenza o mania di grandezza?


Tuttavia, Koolhaas ha tenuto a dire e sperimentare qui a Venezia (ed anche a Milano con Fondazione Prada) cio che per lui significa preservation: significa leggere e rendere viva la storia dei cambiamenti della vita di un edificio. E, in termini di strategia per la parte pubblica, ha previsto che il Fondaco sia un ‘condenser’ dove curatori (di qualsiasi disciplina) si alternino su base stagionale (un po’ quello che succede a Prada, più rationae materiae) e che vi sia una competition (anonima) a presentare progetti. Il vincitore progetta il suo evento. Noi crediamo che invece ci sia un modello molto più ‘encompassed’ dietro DFS. Che fa parte di LMVH, grande gruppo del lusso che ha altri architetti di riferimento (uno su tutti, Gehry, oltre dieci anni più anziano di Koolhaas) ed altri curatori, considerando cosa presenta la Fondazione Vuitton e gli Espace Vuitton in giro per il mondo.

Noi lo abbiamo visitato ieri, ci è piaciuto per molte cose e meno per altre, ma ne parleremo in altri articoli (qui abbiamo recensito per voi il bello, oltre che grande, libro), tuttavia pensiamo che OMA/AMO sia stato stretto ad Arnault e viceversa. Grammatiche lontane e dissonanti. Peccato per Gilberto Benetton: aveva (e ha) Fabrica (che in quanto a cultura non ne produce poca), aveva e ha un impero della moda. Ha desiderato il Fondaco quasi più di un veneziano qualsiasi e poi ha fatto come quelli della Serenissima, ci ha guadagnato (nulla di male, è un imprenditore mica un mecenate) e lo ha ridato agli stranieri. Non ci teneva ad amministrarlo lui. Non si sentiva ancora un Doge da Treviso, lui preferisce un business dell’automation e dei trasporti, tra aeroporti ed autostrade, oltre al fashion. Nel mondo più che nella piccola e affollata Venezia della paccottiglia a 50 cent appena fuori il suo (ex) mall del lusso.

 

‘Il Fondaco dei Tedeschi, Venezia, OMA. Il restauro e il riuso di un monumento veneziano’

Authors: Francesco Dal Co, Rem Koolhaas, Elisabetta Molteni

Publisher: Electaarchitettura

Euro 40, 17x24 cm

ISBN: 978889180988-9

Uscita: 3 ottobre, 2016