Trame ed apparenze: chi sono gli inventori ed i sovvertitori di mondi?

Arte a Venezia: i numeri di quest'edizione, le date e il curatore della prossima

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Trame ed apparenze: chi sono gli inventori ed i sovvertitori di mondi?

Arte a Venezia: i numeri di quest'edizione, le date e il curatore della prossima

Finissage della Biennale: i numeri di quest'edizione e il prossimo direttore 



Oltre 470.000 visitatori senza contare i giorni di vernice, il pubblico under 25 al 31% e oltre il 56% in più della stampa accreditata sono alcuni dei numeri della Biennale di Gioni che oggi (24 novembre 2013) chiude, raccontati da un fiero ed emozionato Paolo Baratta. Una biennale di ragazzi con lo zainetto secondo il Presidente (all’ultimo e non prorogabile mandato); una biennale con oltre 100.000 parole nelle didascalie che smette di corteggiare i visitatori capaci di esprimere solo con stupore bovino “bello, quanto costa?” (secondo Gioni, che dice soprattutto che il suo Palazzo Enciclopedico si occupa dell’arte al di là e altro a parte l’elemento decorativo e collezionistico). 
Hanno tentato, ancora con le parole di Gioni, di fare un laboratorio che studia l’evoluzione e che non stabilisce chi è il migliore; che cerca di creare uno spaesamento, utile per ricostituire nuovi valori e nuovi fondamenti, puntualizzando un discorso che non è nuovo tra cosa è alto e cosa è basso nell’arte. “L’altro giorno quando facevo un ennesimo giro alla mostra, ho visto dei ragazzi che nei padiglioni nazionali mangiavano un panino mentre si spostavano, per non perdere tempo prezioso sedendosi. Amerei che nella biennale del 2030, uno di quei ragazzi che la visitava così oggi, sarà il nuovo direttore”. Queste sono forse migliori parole per terminare tanti e tanti discorsi (l’ultimo raccolto in un instant book presentato al finissage che raccoglie un’intervista a Massimiliano Gioni, 1973, a cura di Cristina Baldacci, 1977, realizzata con Gioni a marzo/aprile scorsi, Sogno di Sapere Tutto IT/EN ISBN 978-88-98727-02-5 Edizioni Fondazione La Biennale di Venezia, Euro 10). Anche perché Massimiliano Gioni ha citato un proverbio yiddish che dice “Hai un numero limitato di parole, quindi quando le dici tutte poi muori.” E lui, ironico, ha detto che negli ultimi mesi se ne è consumate tante, troppe!



A pochi giorni di distanza dal finissage, la nomina del direttore della 56esima Esposizione Internazionale d’Arte che si terrà, ai Giardini e all'Arsenale, dal 9 maggio al 22 novembre 2015: si tratta del critico, curatore e giornalista africano Okwui Enwezor. Nigeriano, nato nel 1963, attualmente è direttore dell'Haus der Kunst di Monaco di Baviera (dal 2011). E' stato Direttore Artistico della seconda Johannesburg Biennale in Sudafrica (1996-1998), di Documenta 11 a Kassel e della settima Gwangju Biennale in Corea del Sud, nel 2008, oltre che della Triennal d’Art Contemporaine di Parigi al Palais de Tokyo.




---- inventori di mondi, trame e apparenze 

 

La più nota città per l’arte al mondo si riempie, ormai da 120 anni in ogni suo luogo (dalle chiese ai palazzi, dalle scuole ad abitazioni straordinarie, dai musei alle fondazioni private) di mostre personali e, più raramente, di collettive. La qualità, tuttavia, non è sempre assai entusiasmante perché per alcune istituzioni partecipare alla Biennale d’Arte di Venezia – il più copiato e famoso festival al mondo - non sempre significa cercare e presentare il più rappresentativo dei propri artisti nonostante l’intensissimo sforzo economico e produttivo per esserci. Spesso è solo una questione di status e di relazioni internazionali.


Questa guida vi raggiunge nell’ultimo mese di apertura, secondo noi il migliore per visitare la Biennale (meno affollata ed arricchita di eventi di finissage come i Meetings on Art): è una specie di scorciatoia per visitare le parti più belle delle due sedi principali (Giardini ed Arsenale) e qualche evento collaterale tra quelli più prossimi a queste due venue. Li abbiamo selezionati prima di tutto per la loro qualità e poi perché rispondevano a due temi prevalenti (per parlare dello stato delle arti oggi): lo storytelling e le texture, i media utilizzati dagli artisti.

 


Artisti acclamati dai più influenti critici, artisti nel bel mezzo dell’età centrale della loro produzione anche se tutti ancora piuttosto “giovani” (la quasi totalità dei viventi ha 30, 35 o 45 anni): mai le partecipazioni nazionali alla Biennale di Venezia sono state così brillanti come questa edizione, che ha alcune belle novità di suo. E’ il primo esempio di festival curato da un critico italiano “giovane” che ogni tanto fa anche il dealer “undercover” (Gioni, Busto Arsizio, 1971); è la prima edizione preparata con più tempo e la prima a fruire di un nuovo calendario di apertura (un giorno in più per il vernissage anticipato soprattutto a fine maggio); la prima che reca con sé ambiziosi e intriganti statement sul tema fondante la Biennale, la nazionalità degli artisti e dei curatori (ed ecco venire in esempio lo scambio dei padiglioni da parte delle delegazioni francesi e tedesche che peraltro hanno scelto artisti non nati nelle rispettive nazioni a rappresentare il loro paese).


Le arti di oggi, quelle create da persone nate pochissimo tempo fa, si esprimono con opere che sono spesso una fonte decisiva per rinverdire le nostre ispirazioni e sinapsi, oltre che skill comunicativi. Spesso, tutto questo accade soprattutto quando ci si trova di fronte ad artisti capaci di inventare “mondi”. Mondi che spesso aderiscono ad argomenti ed assunti molto attuali oppure totalmente all’opposto della realtà (fantastici od utopici): ogni volta gli artisti che lavorano come narratori assoluti sono capaci di creare nuovi significati, di distruggere le nostre convinzioni aprioristiche e agire sottilmente sul nostro immaginario fino ad estenderlo sia dal punto di vista intimo e personale sia per donarci nuovi stimoli anche professionali.


Berlinde De Bruyckere presenta Kreupelhout – Cripplewood e rappresenta il Belgio alla Biennale nel primo padiglione costruito nell’area dei Giardini dedicate alle partecipazioni Nazionali (1907). Scultrice, l’artista lavora da molto tempo attorno ad i temi, intrecciati, di vita/morte/natura ma questa volta si è tuffata nello storytelling perché ha deciso di scegliere come curatore non un critico ma uno scrittore, il Nobel 2003 per la letteratura sudafricano J.M. Coetzee. Questa collaborazione dal sapore unico ed imprevedibile non inizia d’improvviso: è una logica estensione di un lavoro a quattro mani del 2012 quando De Bruyckere e Coetzee hanno pubblicato il libro ‘Allen Vlees (All Flesh)’ che raccoglie i suoi testi e le sue immagini. Le parole qui si sovrappongono alle immagini per suggerire due mondi paralleli che si arricchiscono ma che non s’illustrano vicendevolmente. Il catalogo di questo padiglione è un vero e proprio libro d’artista. La struttura gigante dell’installazione (che è site specific), non fa altro che estendere e potenziare la tipica forma sculturale dell’artista (una struttura simil-lignea che è contorta e che mima quella vascolare-sanguigna). La Galleria Continua che rappresenta anche altri artisti alla Biennale, finanzia questa opera che possiamo dire appartenga anche al secondo dei trend identificati per la visita, quello delle texture: l’artista usa cera, sabbia ed altri materiali per rappresentare il legno ed, insieme, ridisegna l’approvvigionamento e la tonalità di luce nella struttura (il padiglione) che viene in questa mostra trasformato in una mezza dark room.

 

Mark Manders rappresenta i Paesi Bassi alla Biennale di Venezia con Room with Broken Silence organizzata dalla Mondriaan Foundation (su un progetto di Lorenzo Benedetti finalista rispetto agli altri in gara).

11 opere molto emozionanti aiutano il visitatore ad entrare nel mondo finto (rappresentato dallo studio dell’artista) che lavora sulla ridefinizione dello spazio, del tempo e del presente. Anche Manders trova il suo modo per ri-formulare i materiali ed i media, creando ossimori: nulla è quello che sembra (dalla ceramica alla resina, fino al legno e alla tela). Il catalogo ha una sezione di scritti di esperti d’arte ma anche testi degli amici, di scrittori e di altri che descrivono la loro relazione intima con uno dei lavori in mostra.

 

 

Israel è rappresentata da Gilad Ratman con The workshop, un viaggio vero e totalizzante attraverso la scultura ed insieme un nuovo modo per superare le frontiere, in questo caso attraverso un singolare atto del viaggiare “sotterraneo” e dentro la stessa architettura del padiglione: per quest’edizione della Biennale, il paese ha scelto per la prima volta un artista giovanissimo ed una provocativa performance che mischia video e sound design, la scultura vocale e reale (tutto quello che vedrete si è svolto nel padiglione stesso grazie alla partecipazione di attori non professionisti, amici dell’artista). Questa mostra è fondamentale per descrivere come lo storytelling sveli la scena (e l’azione precedente ad essa), il percorso e i passi e la missione del messaggio, che in questo caso è erodere - se non cancellare - il principio di narrazione lineare sia sulla nazionalità che sul fare arte e ricostruire una sorta di metodo pre-linguistico per formare una comunità (fatta di artisti ed esploratori, come sembra indicare Gilad).


Francia e Germania. Il primo paese piazza la sua mostra nel padiglione del secondo (e viceversa): i curatori di Francia e Germania celebrano così il 50mo anniversario del Trattato dell’Eliseo, che segna la rappacificazione dopo la seconda Guerra mondiale. Entrambi i paesi scelgono artisti non nati e non residenti per rappresentarli alla Biennale: come Anri Sala, Albanese residente a Berlino che mostra una superba video installazione che racconta della registrazione, da parte delle migliori orchestre di Francia, del Concerto per la Mano Sinistra di Ravel, remixato e riunito poi da Chloè (dj francese famosa, suona tra gli altri al Rex Club ed incide per BPitch).


Jeremy Deller rappresenta il Regno Unito con English is magic.

Re dei narratori, palma res con Williams (vedremo poi, rappresenta il Galles) come migliore alla Biennale (suo è anche stato, come editor at large, il numero estivo di ArtReview), Deller racconta storie vere e già accadute ma anche storie future e futuribili per formare quello che potremmo chiamare inglesità ed include nel padiglione una serie di steward per navigare le sue contorsioni stilistiche e di trama. Alla fine della mostra si trova una vera e bella sala da tè dove, sotto un bel soffitto di piante grasse, fermarsi per bere una tazza e magari trovare qualcuno con cui scambiare i commenti sulla grande esperienza in fatto di lettura, lavoro, sperimentazione, emozioni provate nel vagare tra le sei sale e le sette storie di cui English is Magic si compone.



Vadim Zakharov rappresenta la Russia con Danaë. La storia mitologica viene riscritta dall’artista con un accento speciale al denaro e alla caccia convulsa della ricchezza estrema. Due uomini vestiti da top manager (uno dei due mangia noccioline su una trave alta del soffitto), una stanza (solo per donne) nel sottosuolo del padiglione completamente ridisegnato per la mostra, formano la proposta sottile ed insieme tranchant dell’artista. Il catalogo della mostra è accompagnato da un libro che raccoglie tutte le proposte artistiche del padiglione dall’inizio della partecipazione russa alla Biennale di Venezia.

 

 

Stefanos Tsvivopoulos rappresenta la Grecia con History Zero.

Un ingresso semicircolare reca sui muri una storia ragionata di tutte le monete informali con testi ed immagini e nel contempo funge da ingresso all’installazione principale, un film in tre parti che parla della crisi economica ed è uno degli argomenti affrontati da una ricerca più vasta che include anche la partecipazione greca alla Biennale di Architettura. Questo padiglione è il migliore in fatto di set e luce applicati alle immagini in movimento. I video sono in loop continuo e i protagonisti, seppure non incontrandosi mai, si intrecciano in una sorta di relazione causa/effetto. La circolazione in questa sala cinematografica sui-generis è garantita da una tenda con la forma dell’infinito.

Ergo, History Zero.

 

Il Padiglione Rumeno mette in scena An immaterial retrospective of the Venice Biennale firmata dagli artisti Alexandra Pirici e Manuel Pelmus. E’ il solo padiglione vuoto e la proposta consiste in un archivio vivente di tutta la storia delle Biennali attraverso i più significativi lavori esposti (dalla pittura alle performance passando per la scultura). Come? Con una sequenza di azioni performative. Si tratta di puro teatro, a tratti ilare a tratti amaro pur nello stesso sketch. Significativamente scettici rispetto al ruolo dell’arte che cerca (ed ottiene e trattiene) il potere, gli artisti hanno inventato un linguaggio assai personale per rappresentare un Picasso e subito dopo una performance di Tino Sehgal. E’ la seconda Biennale d’Arte in cui si assiste ad una ottima rappresentazione della ricerca artistica rumena, che tradisce un’elevata vivacità della scena contemporanea di questo paese (già vista anche nel cinema, premiato nei migliori festival, tra cui Cannes).



Textures - T


Influenzati dai rapidi mutamenti nelle geografie prevalenti, spinti da nuove possibilità di fuga dal globalismo e dai linguaggi artistici tradizionali (e nella maggior parte dei casi non essendosi diplomati a scuole d’arte ma in scienze economiche od addirittura in scienze politiche), i più acclamati artisti oggi invitati alla Biennale d’Arte stanno spostando davvero oltre l’analisi su quale sia il media pertinente e le sue misture capaci a trasportare ed esprimere uno specifico messaggio. Per essere più specifici, questi artisti hanno attivato un personale attivismo estetico (e profondamente politico) sulla pelle e sull’apparenza dei loro lavori. Non è solo una questione di quanto muscolari siano i loro output, o quanto debba “stupire” un pezzo d’arte oppure (soprattutto) quale fetta di pubblico più precisamente (se i visitatori generici, i critici preparati, i ricchi collezionisti). La pelle, i corpi dei nuovi lavori prodotti per l’occasione della 55ma Biennale d’Arte secondo me rappresenteranno un esclusivo precedente che farà scuola a lungo perché sono tutti capaci di parlare al mondo senza sottotitoli. Non importa se ciò che sembra argilla in realtà è resina e quel che sembra una video istallazione è invece la voce di un albero e quel che sembra un albero è invece una nave che ha anche navigato nella sua breve vita di albero-natante. Non è un lavoro meramente illusionistico: le apparenze di queste opere scuotono la mente per spolverare la superficie piatta e arrivare al cuore del gioco. Che è quello di estendere le percezioni, allargare il pensiero, stimolare la società tutta a pensare meglio (e più lateralmente anche). Per coprire il mondo con colori fluo in grado di ribattere ai toni grigi ed oleosi dei nostri pensieri frammentati ed inscatolati.



Forti gesti ed altrettanto sofisticati sospiri sono stivati in Trafaria Praia di Joana Vasconcelos che rappresenta il Portogallo su un omonimo cachileiro ormeggiato all’entrata dei Giardini della Biennale. La pancia dell’imbarcazione, la storia della sua navigazione e le trame dentro e fuori il vecchio vascello dicono dell’urgenza dell’artista di raccontare del suo paese al di fuori delle solite storie stereotipate pur tuttavia usando elementi molto tradizionali, incluso uno speciale brano di cucito e ricamo, luci e azulejos. La nave parte per una breve navigazione due volte al giorno (a mezzogiorno e alle 16, le domeniche alle 14) fino a Punta della Dogana e ritorno) e ha una media di 700/1000 visitatori al giorno.

 

Falling Trees è il titolo unitario di due solo show che per la prima volta raggruppano la partecipazione di Finlandia e Paesi Nordici con due artisti molto differenti, rispettivamente Antti Laitinen e Terike Haapoja. La mostra è originata da un incidente che fornisce il titolo (durante una tempesta, un albero caduto ha distrutto il padiglione disegnato da Alvar Aalto e due alberi sono sempre stati inseriti nell’edificio dei Paesi Nordici). I due famosi artisti nordici lavorano entrambi sull’idea di struttura e di consistenza (entrambi in maniera molto letteraria), il primo sulla sua personale biografia (lavora su performance di vita, spesso molto estreme), la seconda usando un libro particolare, Scrivere di Marguerite Duras, che si concentra sul particolare linguaggio della natura e costruendo un mondo completamente originale che ospita anche la voce degli alberi. Questo percorso combinato nei due padiglioni è a sua volta costruito attorno ad un libro, Matiere Première[1] di Jean Luc Nancy e la definizione dell’artista che vi troviamo: artifix, fabbro della natura, con il ruolo di mettere insieme. Nelle parole dei curatori, non significa mischiare o fondere ma raccontare una natura che è per definizione imprevedibile.

 



La Polonia è rappresentata da Konrad Smolenski e dalla sua spettacolare Everything Was Forever, Until It Was No More.

Ancora una prova regina che testimonia l’ottimo stato di salute del sistema artistico polacco, grazie anche alla curatela di una delle migliori gallerie del paese, la Zacheta. Questo lavoro, una installazione di suono, è stato da più parti acclamato come il migliore padiglione anche se non ha vinto premi e anche se l’artista non è stato pienamente soddisfatto del livello tecnico complessivo. Anche se la mostra non è stata visitabile “in azione” per circa due mesi a causa della protesta degli abitanti di Sant’Elena (ed adesso lavora a volume ridotto), vale assolutamente una visita (l’azione sonora inizia alle 00 di ogni ora e dura 20 minuti, non è possibile uscire se non alla fine). E’ un concerto di campane dove il suono viene registrato dal vivo e campionato, poi amplificato da casse audio e da due muri ricoperti di placche di metallo. Il suono della campana, ad ogni latitudine, è sempre uguale e soprattutto non cambia allo scorrere dei secoli mentre Smoloenski ha tentato di cambiarlo per sempre.

 

 

Al Palazzo delle Esposizioni, una delle due sezioni del Palazzo Enciclopedico curata da Massimiliano Gioni, scultura e consistenza, soprattutto, vengono posti in forte contrapposizione con la pittura ed altri spazi (ad esempio la stanza dove sono esposti De Cordier e Richard Serra; oppure con i pezzi di Sarah Lucas nel giardino di Scarpa); il Red Book di C.G. Jung così come la forma artistica “libro” in ogni partizione (Shinro Ontane); l’arte fatta per scappare alla follia o firmata da malati di mente (Eva Kotatkova); l’uso del colore nella pittura di Varda Caivano e nelle foto di Viviane Sassen, il Leone d’Oro alla Carriera Maria Lassnig, l’incredibile e contemporaneo storytelling di creta di Fischili&Weiss e quello disegnato di Imran Qureshi.

Per finire (o meglio per iniziare, dato che lo troverete all’ingresso del grande Padiglione) con Yet, Untitled di Tino Sehgal (1976), l’unico lavoro che non troverete nei crediti dei generosi testi appesi alle pareti ma Leone D’Oro premiato come migliore artista nella esibizione internazionale.

 


Muovendosi da Giardini ad Arsenale (o vicecersa) non dimenticate una visita a The Starry Messanger, Padiglione del Galles (Evento collaterale della Biennale realizzato dall’Arts Council): si tratta del migliore storyteller mai esistito e della migliore rivelazione della giovane arte gallese, Bedwyr Williams, che costruisce un mondo per guardare le stelle ed anche le infinitamente piccole mattonelle del granigliato veneziano (un omaggio a Galileo Galilei e alla sua relazione con Venezia e con I Dogi, ma anche un denso ed acuto lavoro che racconta di come la microscopia ed i telescopi lavorino nello stesso modo fatto di “pedante” ricerca). Ospitato in una bellissima ex-chiesa ora ludoteca per i bambini di Castello, consiste di un film, un’installazione spaziale, un lavoro sculturale che finisce (letteralmente) in un romanzo (i visitatori possono portarlo via in un pieghevole) che parla di profumi e psiche mente tutto attorno una piccola ma potente installazione sonora lavora a fondo sulle nostre menti mentre usciamo dalla struttura. Tutti questi differenti media sono firmati da un polistrumentista prodigio, che ha skill incredibili e meno di 35 anni.

 


Non pensate di riuscire a visitare l’Arsenale passeggiando velocemente. Gli stop più emozionali possono essere fatti all’inizio, con un brevetto di un italo-americano artista naïf, Auriti ed il suo Palazzo Enciclopedico che da il nome alla mostra di Gioni; il film sulla crezione di Camille Henrot in collaborazione con The Smithsonian Institute (ha vinto un premio come artista più giovane), infine la stanza eclettica per varie schiere di prigionieri con una meravigliosa installazione di Bispo Da Rosario ed una creata dalle prigioniere del carcere femminile della Giudecca (Venezia). Queste ultime raccontano i loro sogni nell’opera partecipativa e di processo firmata da Rossella Biscotti. Non convenzionale e poetica, l’artista Cindy Sherman ha curato una sezione in cui trovare album fotografici sui transessuali ed ex-voto (di cui è un’avida collezionista) così come una collezione deliziosa di piccolo immagini di famiglie di Linda Fregni Nagler ed altri vari oggetti, immagini ed opere che la Sherman ha messo insieme (con l’aiuto della Fondazione Agnelli) invitando artisti famosi e non, feticisti, altri creatori.

Un’enorme stanza ospita la versione azzurro pallido degli scheletri in grandezza naturale firmati da Pawel Althamer (stavolta con visi che ritraggono veneziani). Ed un’altra enorme stanza ospita un artista (che personalmente ritengo sopravvalutato) con diversi video, parlo di Ryan Trencartin. L’idea più raffinata di Gioni è stata mettere un lavoro di Walter de Maria (laconici, maestosi cilindri di bronzo tutti equidistanti) in un grande spazio solo alle Corderie, accanto alle serie di lavori numerici e tecnologici.


Alfredo Jaar, subito dopo, rappresenta il Cile con Venezia, Venezia (realizzato grazie al supporto della Galleria Lia Rumma che lavora da molti anni con il famoso artista e architetto che lavora a New York e che ha inaugurato la sua opera con una performance musicale di suo figlio Nicola Jarr al Conservatorio in Santo Stefano).


Venezia Venezia è un’ode al pensiero di “affondare” l’idea di nazionalismo alla base della Biennale ed è tecnicamente espresso in una vasca in cui un plastico di tutti i Giardini viene sommerso ad intervalli regolari (memento mori è una foto dello studio bombardato di Lucio Fontana a Milano con l’artista che cerca di muoversi attraverso le macerie come se fosse su una montagna di tristezza).


Gioni ha selezionato quasi tutti gli artisti con cui ha già lavorato alla Fondazione Trussardi con personali in palazzi e luoghi random di Milano nei passati dieci anni (a parte Paola Pivi e Pipillotti Rist) e anche gli altri curati nel suo breve ma denso excursus professionale al di fuori di quello milanese. Che penso di questa sezione internazionale? Niente di nuovo e niente di eccezionale eccetto l’ottimo e gran lavoro fatto per fare le didascalie dei lavori in mostra, che includono non solo qualche dettaglio dell’opera, ma il contesto in cui l’artista ha lavorato e il suo milieu culturale, perfettamente riassunti e ancora meglio scritti per introdurre ad una visita più consapevole anche quelle persone che sono nuove all’arte.

 


Un altro merito potrebbe essere l’aver selezionato artisti e specialmente fotografi che non sono mai stati visti o lo sono stati raramente (come fotografi naturalisti, etnografi, pubblicitari ante-litteram oppure ritrattisti). Una volta Gioni ha definito questa sua ricerca come l’impossibile gesto di catalogare il più alto numero di “naïf” e poi di metterli in dialogo con artisti affermati. Direi (e qui il dealer sottotraccia Gioni prevale sul fine ricercatore o sullo scrittore sognatore) che fare il parallelo con artisti che tali non si consideravano (e che tali non erano considerati se non, spesso, dopo la loro morte) ed A-List in un’arena come la Biennale di Venezia ci dice che questo sistema è determinato solo dal mercato e che mai e poi mai potremo vedere una tale varietà in condizioni museali. Per finire, includendo estremi intellettuali e umani (come ossessioni e malattie ed anche il gusto di accumulare tutto come nelle intenzioni di Auriti per il Palazzo Enciclopedico), Gioni di fatto non ha operato così tante scelte ma è andato a scavare quanto di più vario ed esotico per portare insieme, il più possibile, tutta la follia insita nello generare immagini.

 


[1] The same essay is the base of another exhibition currently displayed in Venice, Prima Materia at Punta della Dogana (Pinault Foundation).