Mostra del Cinema di Venezia: i primi 5 giorni di proiezioni

Nessun film in concorso convince sinora, tranne E' Stato Il Figlio

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Mostra del Cinema di Venezia: i primi 5 giorni di proiezioni

Nessun film in concorso convince sinora, tranne E' Stato Il Figlio

Quasi 4000 posti nelle varie sale dedicate in undici, densissimi giorni - dal 29 agosto all’8 settembre: il Lido di Venezia diventa incarnazione dei sogni HD scritti e filmati in una babele di lingue. E’ come viaggiare restando fermi, la 69.ma mostra del Cinema, diretta da un quasi evanescente Alberto Barbera, che quest’anno apre insieme con la Biennale di Architettura: uno sforzo organizzativo senza pari (e senza alcuna defaillance, chapeau!), in una Venezia fully booked più di sempre ed affollata anche da tanti altri eventi, mostre e premi che esulano dalla più celebre, e più copiata rassegna lagunare.

Ritornano in massa gli asiatici e soprattutto sono in tanti gli americani presenti, seguiti testa a testa dai cineasti israeliani e con più distacco da altri orientali nel parterre dei film in concorso che la stampa mondiale (oltre 3000 gli accrediti) recensirà per i lettori del globo. In attesa di Spring Breakers (di Harmory Korine, l’outsider USA per eccellenza: il 4 settembre alle 19.30 e alle 22, due proiezioni anche il 5), ecco i numeri della selezione ufficiale: 18 titoli in Venezia 69, 15 fuori concorso (a cui si aggiungono 9 documentari speciali, da vedere La Nave Dolce di Daniele Vicari), la sezione Orizzonti che ha 18 medi e 15 corti (tutti visibili anche in streaming web). E le sezioni autonome, la cui qualità mi è parsa al momento bassissima, organizzate autonomamente dal Sindacato dei Critici Cinematografici (Settimana della Critica), e le Giornate degli Autori (la cui selezione dei film è firmata da Anac e Cento Autori).

In una Sala Grande gremita ahimè anche di politici di tutti gli schieramenti e gradi (due ministri, un presidente della Corte Costituzionale, il presidente Zaia non nominato dal Baratta nel veloce saluto alle autorità prima di passare ai film), pochi momenti di protesta fuori e dentro solo un breve discorso di apertura del Presidente della Biennale Spa che, insieme al Sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, accoglieva sul red carpet gli invitati più illustri circondati, a debita distanza, da ali di fan in visibilio.
Meno di sempre le star di peso presenti quest’anno; in sala la cifra della volgarità è stata impersonata, come sempre, dal botox, da mise senza pudore e purtroppo senza eleganza (incluse trasparenze oscene) e, tra i tanti politici maleducati presenti, palma res ancora una volta a Daniela Santanchè (pasionaria reazionaria del PDL) accompagnata dal compagno Alessandro Sallusti che è a capo de Il Giornale (la politica ed imprenditrice milanese si occupa della raccolta pubblicitaria del quotidiano di proprietà della famiglia Berlusconi, i nostri nonni direbbero di questi feuilleton “casa e bottega”). L’esponente del Parlamento si scambiava, a pochi passi da me, epiteti irripetibili, a voce sostenuta, con alcuni romani tra cui l’altrettanto volgare – e sin qui onnipresente – Roberto D’Agostino, fondatore di Dagospia. Accanto a questo esempio poco lungimirante, altri ahimè denotavano il livello di guardia a cui certa televisione e certa protervia ha spinto il paese che in effetti è pronto a precipitare nel vuoto. E io spero che i primi a cadervi siano le persone volgari e mafiose che sin qui ci hanno condotto, perché il paese, fortunatamente, esprime anche correttezza, professionalità ed eleganza, che a fatica si intravedeva anche in Sala Grande il 29.

Tornando al cinema, non ha entusiasmato il seppur godibile film d’apertura The Reluctant Fundamentalist di Mira Nair (già Leone d’Oro per Monson Wedding), una produzione USA resa possibile solo dal deciso finanziamento (integrale) del Doha Institute (insomma il Quatar uber alles nel mondo del cinema più importante, per giunta alla serata inaugurale).
Basato su un omonimo, ottimo romanzo (del 2007 di Mohsin Hamid, tradotto in 25 lingue) e su altrettanto brillanti prove attoriali (Riz Ahmed, Kiefer Sutherland), il trattamento dello script tradisce la storia, ne accentua i luoghi comuni, preferendo calcare la mano sulla facile presa nazional-popolare post 9/11. La regista, su Variety, ha dichiarato che aveva in mente di fare un film in grado soprattutto di rivolgersi ai giovani e, così dicendo, quindi sembra non riconoscere gli handicap del suo screen play rispetto al romanzo originale. Il film è fuori concorso come l’applauditissimo Enzo Avitabile Music Life di Jonathan Demme, una co-produzione che ha seguito la pellicola di Nair nella serata inaugurale e sarà anche sugli schermi dedicati al pubblico (a Venezia in questi giorni sono dislocati tra San Polo con l’Arena estiva, Mestre e Lido in concomitanza con le proiezioni ufficiali).

Mentre alla Pagoda le Giornate degli Autori offrono in orario serale tutte le proiezioni del loro calendario ad ingresso gratuito, entra nel vivo la Sezione Venezia 69. Izmena (Betrayal) di Kirill Serebrennilov, delude per la maniera e soprattutto i tempi della regia che lo rendono un film senza perché. Buona l’intuizione narrativa (che pare parta da ragioni autobiografiche) ma assolutamente povero il contesto in rapporto al paese reale, la Russia, dove i fatti accadono: i destini di due coppie sono legati dal tradimento e si avvitano fino ad una tragica fine che non è in grado di disvelare dove stava il male di vivere dei protagonisti.

Evento speciale della Critica, si segnala Water di Nir Sa’ar e Maya Sarfatti, un pacchetto di documentari tenuti insieme dal tema dell’acqua come materia di conflitto in Medio Oriente.

Torna sugli schermi Urlich Seidl e a Venezia presenta in concorso Paradies Glaube: una storia densa, assai chiacchierata ed applaudita per via di una scena di sesso con un crocifisso, che riflette sull’estremo parossismo del fanatismo religioso (stavolta cattolico).

Delude molto At Any Price di Ramin Bahrani: buono il tema – la profonda America Rurale che spesso viene trascurata sebbene sia la maggioranza di territorio del gigante mondiale – pessimo il trattamento e soprattutto la dipanazione del tema, si salva la recitazione di Dennis Quaid, felici al Lido le fan di Zac Efron.

Divisi pubblico e critica su Superstar di Xavier Gianoli, anch’esso in concorso come At Any Price: la storia di un uomo qualunque che diventa famoso senza sapere il perché. Per taluni funziona, per altri la pellicola stenta a trovare una coesione ed una dimensione narrativa convincenti.

Bisogna attendere E’ Stato il Figlio, di Daniele Ciprì per riconciliarsi con la selezione di Venezia 69. Ambientato in una Palermo anni 80 (in realtà il film è girato in Puglia con il contributo della locale film commission), coprodotto tra Italia e Francia (e senza la sua metà, Maresco, con cui Ciprì ha divorziato da tempo) è la storia dei Ciraulo, una famiglia composta da due genitori, due nonni e due figli. Uno straordinario Toni Servillo che parla mirabilmente il siciliano (i sottotitoli servono quindi anche agli Italiani in sala!), è il capo-famiglia tipo di tanta Italia che è rimasta immota, ancora esattamente così oggi, come la descrive la storia. Non è la povertà o i sistemi di valore tipici di molte zone italiane (al sud come al nord il fare mafioso impera), è l’incultura la protagonista del film.
La grammatica della fotografia è tesa e perfetta, straordinari alcuni controcampo che sembrano mischiare colore e bianco e nero; indovinati i momenti di relazione con l’architettura brutalista delle case popolari edificate selvaggiamente e poi condonate: il film – che riesce a parlare un linguaggio elevato ed universale pur prendendo in esame un fenomeno che più locale non si potrebbe - è in predicato di un premio, soprattutto se si pensa alla scarsa concorrenza che viene dalle altre pellicole.

Divisi, soprattutto nel pubblico, i pareri su The Master, nuovo lavoro di Paul Thomas Anderson, su cui c’era molta attesa: è la storia di Hubbard, il fondatore di Scientology.

Grande, incredibile accoglienza invece per Bad 25, documentario che Spike Lee dedica all’album di Jacko seguendone l’accoglienza e soprattutto il successo a 25 anni dalla pubblicazione (la pellicola è fuori concorso: avrebbe vinto qualsiasi premio, al momento ha vinto quello dello sponsor, la maison degli orologi Jaeger Le Coultre).

Che dire, infine di Outrage Beyond, del maestro Kitano, su cui l’attesa era del pari molto concentrata. In concorso, il film è una sequela spregiudicata, senza capo ne’ coda, di assassinii tra esponenti di cosche. Assente la figura femminile e qualsiasi altra interferenza che potrebbe rallentare o rendere rarefatto il rapporto ossessivo mano/pistola. Applaudito in maniera più tenue di quello che ci si aspettava, il film non mi ha emozionata come gli altri del grande autore giapponese.  Avendo però Garrone in giuria, credo che possa avere molte chances.

Unico film interessante al momento nella selezione della Settimana della Critica è Welcome Home, una pellicola rapsodica filmata da Tom Heene (con un mirabile sound design che costituisce una solida spina dorsale del film dalla lunghezza inusuale). Heene ha fatto il direttore di produzione e l’aiuto regista per diversi film altrui (firmati da Frédéric Fonteyne, Olivier Smolders, Philippe Falardeau, Alex Stockman, Patrice Toye, Jürgen Leth e Lars Von Trier).

Secondo me mal presentato da un esponente della commissione selezionatrice (“l’abbiamo selezionato perché è intimista e politico in egual misura” ha detto Piero di Pasquale), in sala il film ha raccolto sia applausi sia fischi, i secondi erano però immotivati. Grande influenza della video arte soprattutto nel trattamento e nei tempi, il film si concentra su poche ore della vita di una donna e del suo compagno, raccontando mirabilmente i frammenti di un passaggio (tra la morte e la vita, tra l’amore e la solitudine e tra la coscienza e la dissoluzione). E di un paesaggio, interiore e sociale nello stesso modo, della sua Bruxelles a cui l’autore dedica la maggior parte delle sue opere.

Talvolta, invece, vedendo film come Blondie (di Jesper Ganslandt, Svezia) presentato a Le Giornate degli Autori, ci si chiede come mai la sezione, indipendente dalla Mostra del Cinema, sia di questo livello (includere questo titolo è veramente inspiegabile). Rimbalzata, dopo una lunga coda, dalla proiezione sold out di Lemale Et Ha’Chalal (spero di vederlo!), sono finita a vedere Blondie, che non era sulla mia lista dei best of della giornata. Una storia piatta di donne, solo donne, con maschi volutamente relegati al ruolo di contorno (di cosa non si sa), è mal scritto e peggio ancora recitato. Fieri tutti di averlo avuto in selezione, gli Autori hanno anche sottolineato che è il terzo invito al regista svedese….