Basilea über alles, fino ad oggi ed oltre

Una guida delle mostre in fiera ed in città

sezione: blog

22-06-2014
categorie: Design, Architettura, Arte, Cinema, teatro, performance, Window Shopping,

» archivio blog

Basilea über alles, fino ad oggi ed oltre

Una guida delle mostre in fiera ed in città

Ancora oggi, c’è tempo per visitare Art Basel, la più grande fiera d’arte europea che si snoda nei tre padiglioni della fiera cittadina (Messe), recentemente ridisegnata dagli architetti di casa, Herzog&de Meuron: per la prima volta riunite alle gallerie principali (232) le esibizioni personali scelte da 14 gallerie e dedicate ad artisti emergenti (Statements) ed anche Feature (24 progetti curatoriali su temi specifici). Il luogo dove perdersi è e resta Unlimited (curato da Gianni Jetzer): 78 opere di altrettanti artisti, su scala monumentale (adatte ad essere collezionate da musei).

Tanti sono gli appuntamenti a Basilea e dintorni in questi giorni, aperti al pubblico spesso gratuitamente. Il più ghiotto è sempre Art Parcours, organizzato dalla fiera, inaugurato in notturna in concomitanza con l’apertura del 18 giugno: performance ed installazioni quest’anno sono concentrati nel quartiere di Kleinbasel e curati come di consueto da Florence Derieux del FRAC. Tra gli altri, Francesco Arena che offe performer che, uno alla volta, camminano fino a percorrere 278 km, la distanza che separa Basilea e Torino (parafrasando Nietzsche e la sua lettera dal medesimo titolo. In questa sezione è stato possibile vedere “live” la parte compositiva ed atletica del meraviglioso film di Guido van der Werve esposto ad Unlimited: dal vivo qui un requiem di 45 minuti suonato da un coro ed orchestra alle 22. Oggi Parcours chiude alle 19.

Film, la sezione che l’anno prossimo sarà curata da Maxa Zoller, esperta di stanza a Il Cairo, si svolge allo Stadtkino e comprende 30 film d’artista.

La novità di quest’anno è 14 Rooms, alla Hall 3 (una sezione della fiera annessa ad Unlimited grazie al nuovo design dei padiglioni): sebbene non sia una novità assoluta (il progetto è nato per il Manchester Festival in 11 stanze, poi proseguito alla RuhrTriennale in 12 stanze), è una delle sezioni più visitate della fiera. In 14 stanze tutte con la porta a vetri (tranne una, quella di Sehgal) e tortuose – forse drammatiche, di sicuro le vorreste! - maniglie di legno, il curatore principale, Klaus Biesenbach, ha invitato artisti viventi accanto a performance storiche (tra queste ultime, quelle di Bruce Nauman e Yoko Ono) per progetti live ed immersivi (spesso one to one con il visitatore). Inutile fare la coda davanti alla porta di Dominique Gonzalez-Forster, e ci dispiace perché era una delle ragioni per cui abbiamo visitato 14 Rooms (uno specchio in una stanza vuota): piuttosto non perdetevi per nulla al mondo Santiago Serra ed i suoi veterani di guerra che, di spalle, fissano uno spigolo della stanza e si danno il cambio con la solennità degna di bel altro cambio della guardia, tipo quello di Buckingham Palace. Tino Sehgal racconta, parola per parola (letteralmente: una parola per volta declamata da coppie di performer, il discorso è lungo ma molto attentamente erogato), perché lavora in questo modo e che tipo di collezionismo possono avere le sue performance. Non ci sono foto e video dei lavori, men che meno courtesy (la sua stanza è l’unica senza specchio alla porta e senza cartellino identificativo, come al solito). Chi compra, in pratica, riceve solo una lettera, contenente le meticolose istruzioni per replicarla a casa propria (e, of course, nessuna fattura: il lavoro è puramente immateriale!).


Unlimited è la sezione più emozionante della fiera: se pensate di andarci solo oggi, riuscirete a visitare solo quella se deciderete di soffermarvi attentamente. Non è solo la monumentalità la sua cifra cognitiva e stilistica (sebbene molti siano i lavori giganteschi, interi mondi prodotti da artisti di diverse nazionalità), ma la varietà di media e di gesti: dalla pittura, al film, alla scultura, al mixed media spinto all’estremo per lavorare sulla percezione.
Andrew Dadson presenta un lavoro prodotto per l’occasione (Re-stretched and Re-framed) che riscrive creativamente la pittura, grande protagonista della fiera insieme al colore: 19 “quadri” di diversa dimensione in cui il colore è materia sculturale, esplosa sulla cornice. Il quadro è la cornice, fatta di strati spessi di pittura bianchi appena screziati da altri colori, mentre la tela, vuota, si candida solo ad ospitarli.
E’ Guido van der Werve invece a riconfigurare l’arte filmica nel senso più pieno della parola. Una storia romantica e vera (quella di Chopin, seppellito in Francia, il cui cuore viene staccato dal corpo per volontà del compositore, portato in Polonia e lì seppellito con l’aiuto della sorella) è trasformata ed esplorata, con addizioni storico-filosofiche che esplorano la relazione tra potere, attaccamento inteso come legame di sangue e di amore, geografie intese come conquiste. 54 minuti, la pellicola si divide in tre movimenti e 12 capitoli perché seguono il dipanarsi di una composizione firmata dall’artista, colonna sonora di tutto il film: è la storia di un atleta che percorre (con vari mezzi: bici, nuoto, corsa, camminata) circa 1700 km. Distanza tra cuore e corpo, esplosioni controllate, concerti, luoghi e frazioni di interni sono le uniche scene che accompagnano il viaggio. Straordinario.

Sorpresa vera è Troika, gruppo di giovani artisti di base a Londra. E’ fondato nel 2003 da Conny Freyer, Eva Rucki e Sebastian Noel (li avevamo già visti a Design Miami, protagonisti dell’installazione in fiera nel 2010). Presentati da OMR (galleria messicana), lavorano (come Carsten Nicolai e la sua unidisplay del 2012 e Ann Veronica Janssen con RR Lyrae del 2014) sulla percezione. Differentemente da Nicolai che si concentra sul suono e sulla linearità e differentemente da Janssen (una sua installazione è attualmente anche al bellissimo museo di Sansevero a Napoli, sempre curata dalla Galleria Artiaco) che si concentra sulla luce e sull’effetto sculturale in ambienti conclusi, Troika lavora sullo spaesamento. Un monolite nero è protagonista sospeso in una stanza. Grazie alla dose perfetta di illuminazione, l’approccio al solido è straniante. I suoi confini – e la sua forma a mo’ di diamante grezzo – saranno chiari solo quando si è nella sua immediata prossimità, ma avranno ancora il potere sovrano di ingannarvi. Un lavoro importante: Dark Matter (prodotto come molti altri lavori di Unilimited apposta per la fiera) è il più originale visto in fiera per come lavora sulla conoscenza e sui modi di approvvigionamento di sapere che ci sono dati.


Di tutt’altro intento, ma sempre concentrati sulla percezione e sul ruolo della cognizione umana e della “cultura dominante” che spesso la pre-configura inducendoci in errore sulla comprensione reale dei fenomeni del mondo, due lavori molto diversi tra loro ma ugualmente striking: il primo è Before falling asleep, a pre-cortical image inside a moving train (2014) di Gusmao+Paiva, una camera oscura che ci concede di sbirciare un mondo (due stanze/vagoni iper-bianchi) fatto di sottili variazioni senza che sia usato il video. Al di fuori della visione da camera oscura, infatti, vi sono proiezioni di luce che completano la sensazione di esplorazione e movimento quando a muoversi (nel senso di immagine) nulla c’è.
L’altro lavoro è quello di Melvin Moti, The Eightfold Dot (2013) girato in 35 mm, dura circa 25 minuti: partendo dalle teorie della Quarta dimensione, esplora la genesi dell’oggetto (ad esempio vetro) a partire dalla materia e solletica una comprensione fenomenica diversa e primigenia. Imperdibile (soprattutto cercate di trovare MU il libro d’artista con due suoi saggi, il secondo sul vuoto: io non ci sono riuscita!).
Tra le grandi installazioni che instaurano una nuova consapevolezza fenomenica, l’imbarazzo della scelta: partiamo da una storica, quella di Christian Marclay (Shake Rattle and Roll, 2004): sedici video mostrati su altrettanti monitor messi in circolo raccontano il rumore di 500 oggetti Fluxus, maneggiati da Christian stesso con dei guanti. E’ Laure Provost invece a miscelare intimità e storytelling per lavorare sulla percezione: una vera e propria casa (tavoli, sedie, altri oggetti) accoglie il visitatore in una proiezione che racconta, sommessa, ricordi immaginari di famiglia ed altrettanto immaginari oggetti. Wantee (2013) è un film/monologo ma ad ispirarci e a rendere tutto dannatamente credibile (romantico, magistrale e malinconico) è la quantità di props disseminati tutto intorno dall’artista.

Abbonda il piacere estetico e ovviamente la ricerca, lontanissima dalla forma-funzione, attorno a materiali e tecniche. Impossibile citarli tutti, ma tre opere ci sono sembrate, ancora una volta, imperdibili: New Women (2013) di Yang Fudong, Marvelous Man-made Minimal Mineral Medley (2013-14) di Tony Feher e Darkroom di Shooshie Sulaiman. Il primo è una maxi proiezione su più canali sulla figura femminile che rielabora il sapore delle stampe all’argento – nel senso estetico, storico e culturale - in forma di film. Il secondo è un semplice gesto scultoreo (centrepiece di vetro colorato, di preziosa fattura, agganciati ad assi di legno appoggiate alle pareti, quindi posti in verticale) che straordinariamente rimette al mondo, elevandole, cose ordinarie. Il terzo è una piccola casa piena di fotografie trovate, che ritraggono persone sconosciute (in realtà è il rifacimento del suo studio): su ogni foto Sulaiman (della Malesia) lavora sovrapponendo petali o disegni. Riflette sull’identità delle sue genti.
Tra le installazioni “storiche”, 28 Plaques Placed in Two Unconventional Forms, 1966-1968/2013 di David Lamelas è straordinaria. Originariamente installata in un pezzo del museo di Buenos Aires tra il vecchio edificio ed il nuovo, è composto di una miriade di fogli, plastici, placche, oggetti. E’ stato ricostruito grazie alla David Roberts Arts Foundation (Londra) nel 2013 e nuovamente esibito ad Unlimited.


Appena fuori Art Basel, Design Miami/Basel, che ha aperto un paio di giorni prima della fiera, registra importanti novità: cambio di direttore, di numero di gallerie, di sezioni. Se le gallerie – tutte, nessuna esclusa neanche Carpenters che pure arriva con un lavoro curatoriale firmato da Jerome Sans: oggetti di arredo firmati da artisti – si concentrano esclusivamente sul design moderno o storico da collezione oppure esprimono gusti e tendenze più degne di una fiera a Mosca, per facoltosi acquirenti dallo stile ultra kitsch (irriconoscibile lo stand di Nilufar che in passato aveva presentato lavori straordinari di giovani o affermati designer), la fiera stessa sembra invece cresciuta molto nel suo aspetto istituzionale. Marianne Goebl lascia e al suo posto arriva Rodman Primack, nuovo direttore ed esperto quarantenne (oltre che collezionista) di arte Latino-Americana con un passato da Phillys de Pury, Christie’s ed altri oltre che imprenditore con la sua casa d’aste online. Se Marianne aveva sicuramente un’impronta più di ricerca, la missione di Rodman sembra quella di incrementare la frequentazione della fiera da parte di dealer. Orbene, lui arriva a febbraio per cui, penso, la scelta delle gallerie è stata fatta in precedenza dai direttori di ciascuna. Quello che Primack nel breve tempo ha fatto (presentando a Milano da Giacomo all’Arengario il suo nuovo programma di Commissions insieme ad uno degli sponsor di Design Miami, lo champagne Perrier&Jouet) è stato introdurre una sezione, Design At Large, che ci sembra la migliore novità della fiera (insieme al nuovo layout, molto convincente, della Collector’s lounge realizzata con Vitra e Perrier&Jouet). E aumentare, di tanto, il numero delle gallerie, passate a 51.
Design at Large aspira alla stessa consistenza di Unlimited, ovviamente con un taglio maggiormente domestico e partendo dall’assunto che lo stesso Primack ha più volte introdotto nei vari appuntamenti dedicati a presentare il nuovo corso della creatura di Craig Robins, che ha solo dieci anni di vita ma che lavora accanto al longevo gigante Art Basel: occorre guardare al collezionismo senza differenza di genere. Chi colleziona arte può e sarà interessato anche ad acquistare pezzi unici o rari anche per il suo arredamento. Sei autori, tra cui Chris Kabel, Jean Benjamin Maneval, Eske Rex, Anton Alvarez, Dominic Harris, giganteggiano al centro del padiglione (il layout della Hall 1 è stato del pari ridisegnato per quest’edizione, ottimamente, da Aranda/Lasch, studio americano di architetti che segue la fiera come exhibition designer e che come duo di “collectible” designers espone allo stand di Johnson Trading).
Sheila Hicks, la migliore vista a Design at Large, espone un lavoro nuovo ed interattivo. Il colore e la sua dote tattile, la meno esperita forse, sono protagonisti. Filati e gomitoli giganti restituiscono l’idea di nido e rifugio ma è il visitatore il protagonista perché è incoraggiato a sperimentarlo, prima di tutto capendo da dove nasce e come si combina allo spazio che lo circonda. Chapeau: immaginando l’expertise di Primack sul latino-america, Design At Large a Miami sarà imperdibile.
Design on Site, che raduna le gallerie che presentano collezioni di un singolo design, quest’anno ha mostrato due progetti rimarchevoli. Con StoneCh, Mitterand+Cramer ha portato una collezione di oggetti di uso comune di Studio Job (realizzati in marmi locali). La Galerie Gosserez invece, porta gli arredi di Valentin Loellmann, ironici e nel contempo Bauhaus.

 


Inutile dire che as usual, la piccola ma cruciale Basilea è in piena fioritura e una decina di mostre imperdibili è aperta nei musei cittadini ed oltre. Qui solo due, in ordine di priorità (non chiudono fortunatamente come la fiera oggii!). Cominciamo dallo Schaulager: Paul Chan si appropria del museo e lo rimastica per creare un’esperienza totale e straniante dentro e fuori la sua poetica, fatta di Web, film, proiezioni di luce e libri.

Il Vitra Design Museum, che benedice tutti gli anni l’estate con una grande festa in occasione delle fiere, ha presentato due principali novità quest’anno. La più spettacolare è la Slide Tower, firmata da Carsten Holler, in collaborazione con il senior curator della Fondazione Beyeler (dove trovare una straordinaria mostra di Richter). Una torre panoramica con orologio, che in realtà non segna il tempo, è al contempo un landmark territoriale ben visibile (l’orologio proietta ad intervalli regolari il marchio di Vitra) e un luogo di aggregazione sociale: dopo aver guardato il panorama dai 17 metri di altezza, scendere è possibile scivolando come al parco giochi per circa 38 metri (lo scivolo è tortuoso e sembra molto divertente, non ho avuto il tempo di provarlo data la folla!). Alvaro Siza ridisegna il sito, ampliandone la parte pubblica compresa tra il Campus e Fire Station disegnata dalla Hadid, con una sorta di land architecture: una passeggiata orizzontale tra oggetti, la VitraHaus ed il giardino esterno, denominata Alvaro Siza Promenade (Siza aveva già lavorato per Vitra, ampliandone la fabbrica nel 1994).