Giorgio Anastasia, venti anni di poesia editoria indie e reading. A Napoli, mondo. Un'intervista

la poesia non è di chi la scrive ma di chi legge ognuno può avere i miei versi e fare ciò che ama

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Giorgio Anastasia, venti anni di poesia editoria indie e reading. A Napoli, mondo. Un'intervista

la poesia non è di chi la scrive ma di chi legge ognuno può avere i miei versi e fare ciò che ama

Poesie e amore: un binomio indistruttibile, anche e soprattutto ai tempi di Facebook. Incontro Giorgio Anastasia, poeta e performer napoletano di origini potentine che rifiuta o trascura i sistemi tradizionali di publishing (“è triste vedere quanti pochi libri di poesie ci siano nelle librerie italiane”) e preferisce blog di poesia oltre che il suo (che ospita la sua raccolta Camera Buia) per farsi leggere. Offline è un assiduo organizzatore di reading a cui trascina altri poeti e attori, oltre che performer provenienti da varie discipline ed amici di lunga data, per declamare versi suoi o di altri autori: jam session spesso toste, urlate, sempre allegre. Quest’intervista non ha una fine, neanche un inizio, come Camera Buia. Vorrebbe fare poesia e basta.
Una cosa sola è certa: viene raccolta più o meno al giro di boa dei venti anni di scritti consapevoli di Giorgio, che da poco ne ha compiuti quaranta. Ha iniziato a scrivere a 14 anni, ma stabiliamo di considerare i venti come esordio maturo, giusto perché venti è un bel numero tondo, ora che scriviamo oltre la metà dell’anno strano 2012. Abbiamo incrociato le nostre strade scrittorie alcune volte in pubblicazioni indie (si direbbe ora), che auto-costruivamo senza Apple ma in caotiche copisterie oppure erano figlie d’altri amici, meteore sostanziose per la città improvvisamente orfana di fanzine di poesia che è stata Napoli fine ottanta-inizio novanta. Dopo la sbornia dei gruppi di poesia visiva e impegnata che proprio a Napoli sono nati a partire dagli anni ‘60 e che rappresentano tuttora un caso letterario internazionale.

Diana Marrone:

“Scrivi, mirabilmente, di Amore senza identità di genere: è un bel salto in avanti rispetto a Whitman, a Dickinson, a J.T. Leroy prima che si scoprisse che non esisteva (rimangono gli scritti, però, e non è poco) per non scomodare certi canti di Boccaccio e Pasolini di “Poesia in forma di rosa”. Scrivi d’amore per tutti i sessi, eleggendo la tua biografia a collante materico e sostanziale? Come fai e perché?”

Giorgio Anastasia:
Mi hai ricordato quando ancora ventenne, insieme a pochi amici, scegliemmo una ex segheria al centro di Napoli come improbabile incontro culturale underground, erano gli inizi degli anni Novanta e in un primo pomeriggio invernale con Sara Sole, Francesco Di Bella, Giovanni Zoppoli e Sandro Fucito decidemmo che il “Cerriglio” doveva essere un’altra scommessa per questa metropoli ed i suoi giovani artisti. Ci voleva coraggio e qualche idea per dare una svolta anche breve a questa città (che ancora oggi vive il suo ennesimo default, non solo economico e sociale ma soprattutto culturale).
In quegli anni per il Cerriglio e per i suoi particolari abitanti mettevo alle stampe, autogestite, una piccola collana dal nome “Gesuvio – scritti di uomini e donne minimali”. Me ne ero del tutto dimenticato. Dopotutto siamo al prologo di un’esperienza artistica che più volte ha cercato di trovare un continuum trans-generazionale ma non sempre gli esiti sono stati positivi. Non sarà stato un caso che questo fallimento per me sia avvenuto con una catarsi decennale nella quale non ho scritto nulla, ho deciso semplicemente di mettermi da un’altra parte.
Beh, grazie del complimento ma credimi non penso di scrivere mirabilmente. Quando ho ripreso, potevo soltanto “parlare” d’amore e soltanto di quello, potevo evocare, attraverso la poesia, delle immagini che fossero pezzi di vita che a volte si raccontano… ho preso me e l’ho messo in versi e se è vero che sul sesso si può essere anche oggettivi, sull’amore no: si rimane nella soggettività.
Su questa personale intuizione ho costruito “Camera buia: poesie di un impossibile amore”. Il vissuto e il racconto di ognuno, il ripetersi di azioni che si fanno storia, il vissuto quotidiano di una relazione, il gioco che si chiama vita e sul quale scommetti gran parte delle tue emozioni sono sempre un azzardo. Puoi rimanerci fottuto o costruirci una fortuna. Ho cercato soltanto di allontanare per un po’ le paure del quotidiano ed esorcizzarle: in fondo tutti cercano la felicità, io invece dico che si può essere più che altro contenti e per rimanere tali bisogna dimenticare e liberarci.


DM:

“Il movimento della vita è di per sé sempre uguale, a molte latitudini, a parte la differenza di tradizioni e culture. Si vive per accoppiarsi e godere, per migliorare o per indulgere in ripetizioni talvolta lesionanti - anche se alcuni, troppi o tanti ancora, preferiscono la guerra, il profitto, la prevaricazione. Scrivere soltanto d’amore è secondo te abbastanza efficace per metterci tutta la (tua) vita dentro oppure l’unica via per cantare la vita è l’amore, perché il resto è poco eccitante e quindi è inutile scriverne? E qui avrei ancora da portare in soccorso PPP, e anche casi di poeti (o artisti) meno impegnati politicamente…”

 

GA:
Non ricordo chi mi disse di conservare un sentimento di odio per la vecchiaia perché in fin dei conti anche quando volgiamo al termine della nostra vita, quando tutti gli amori sono finiti, le nostre aspettative ormai sono ridotte al minimo e le attese sono quasi tutte esaurite, rimane l’odio, sentimento contrapposto all’amore, come un’unica via di vitalità, di ribalta, un ultimo colpo di coda che ci viene concesso… e se ci penso ho già scelto almeno un paio di persone che odierò con tutta l’anima, mantenendo e conservando con cura questo sentimento, vero e affascinante come quello dell’amore.
No, credo che l’amore sia una parte importante della vita ma che ci sianno tanti altri aspetti importanti come soggetto-oggetto narrabile.
Ho semplicemente scelto l’amore perché è un minimo comune denominatore che appartiene a tutti e, in maniera trasversale, ha sempre rappresentato, nell’immaginario collettivo, l’essenza profonda di un vissuto.
Invidio quelle persone che si innamorano una, due e tutte quelle volte che lo decidono… a me è capitato così poche volte e mi sento dopotutto molto fortunato perché innamorarsi è un atto rivoluzionario, una scoperta che ti penetra così in fondo da cambiare la chimica degli elementi talvolta per giungere alla pazzia altre volte per approdare ad una guarigione.
Prendo atto però che ancora oggi tanti poeti non vivono in paesi “liberi” e sono censurati per quello che hanno scritto, che scrivono o perché con la propria stessa esistenza svelano le storture e la violenza esplicita o implicita ai regimi, scegliendo la strada più difficile, quella che dà alla parola, ancora oggi, il privilegio di essere l’arma più potente e temuta ma anche la più incruenta.


DM:

“Pausa di tecnicismi: scrivi pensando soprattutto ad un pubblico che legga i tuoi scritti e che li scambi viralmente e faccia (solo) I Like? O al contrario, scrivi pensando alla soluzione declamatoria e quindi ad urlare alcune parole meglio di altre, con il tuo seguito intorno?
Insomma perché scrivi e non dipingi o scolpisci o reciti? Ti faccio questa domanda in particolare perché pare non ti interessi pubblicare un libro tradizionale, eppure vieni dalla preistoria di adolescente senza telefono, senza messenger, insomma non sei certo un nativo digitale.
Eppure, ora che vivi in un’altra epoca, ci potrebbero essere audiolibri, poesie-canzoni e una miriade di altre strade, piccoline e tortuose, da percorrere, persino dando in pasto brandelli di versi a certo teatro o videoarte…
Che posto vuoi per la poesia nella tua vita?”

 

GA:
In realtà non mi sono mai posto il problema; quel che è certo è che non scrivo per qualcun altro o per un immaginario, prossimo, reading. Essenzialmente scrivo per me stesso e per nessun altro! Ci sono giorni, settimane, che non compongo e allora incomincio a preoccuparmi, mi assale la paura e penso che forse la forza creativa si sia esaurita.
Invece, volente o nolente, arriva il richiamo: non ci sono altre possibilità ho scelto la scrittura e in particolare la poesia per rappresentare il mio disagio, la mia inadeguatezza ad un reale che provoca aritmie.
Nella poesia ho trovato lo strumento per allontanare le paure, per plasmare un equilibrio, in poche parole, per salvarmi il culo. Il fascino di una pubblicazione c’era all’inizio quando potevo pensare che le parole potessero essere meglio rappresentate su una copertina patinata. Ora non è così!
Tutti scrivono poesia anche perché è la cosa più facile da fare e tutti pubblicano materiale poetico che, letto e immediatamente ingoiato, diviene una merce di scambio come tutte le altre ed è, oltremodo, spesso scadente.
Questo surplus materico di un oggetto che sollecita al di là di ogni parola la sfera emotiva, le zone d’ombra, le risultanze impercettibili del non familiare diviene proprio per questo confidenziale e, quindi, rimane per me.
Inoltre non è soltanto un luogo ideale ma fisico, scrivo soltanto in una stanza precisa, di notte, e non riesco altrove. Questo piccolo spazio ritagliato ha un potere enorme, magico, curativo altrimenti non avrebbe senso, sarebbe vuoto che richiama altro vuoto. Ecco questo è il come e il perché scrivo.

DM:

“Altra pausa di tecnicismi: hai studiato la metrica e sembri applicarla o disapplicarla a seconda del trasporto che, penso, ti creino certi brani di vissuto che metti nella lirica oppure il suono di certe parole una vicina all’altra…E’ così? Che rapporto hai o hai avuto con la metrica? E con un grande vecchio che ti ha guidato, sia esso poeta o musicista? Come diluisci suggestioni di versi altrui nei tuoi pezzi? Mi fai qualche esempio?

GA:

La poesia è anche un insieme di regole e la poesia lirica non è da meno.
Già in Grecia si sentì, ad un certo punto, la necessità, mantenendo il rispetto per il genere, di liberarsi dal fardello di canoni asfissianti per lasciarsi andare all’armonia, alla meraviglia fonica, ma sarà nel Novecento che lo scarto tra il significato comune e quello poetico delle parole attraverso il suono e gli effetti che produce che ci sarà l’inizio di quella ricerca, ancora in atto, di una lingua poetica al tempo stesso “media”, quotidiana, eppure ormai lontana da quella “standard”.
La musicalità del verso è un tratto evidente e innegabile della mia personale poetica e se non c’è questo allora è come giocare a scacchi muovendo a casaccio le pedine. La partita è persa prima ancora di incominciare. Posso scrivere di getto e in pochi minuti, lasciarmi andare al flusso delle parole che corrono veloci fino ad arrivare alla pressione dei polpastrelli sulla tastiera del portatile ma poi inizio un’altra attività, più delicata, il labor limae: la revisione di un verso là, il rendersi conto che una parola non va… o non rende in quel punto, qualche volta bisogna ucciderle, le parole, tramortirle o mutarle. Una volta che una strofa vede la luce, la ripeto a cantilena, come se recitassi un mantra.
Mi dico - non affezionarti a quello che scrivi, l’ho imparato a mie spese quando ho avuto la fortuna di essere seguito fin da ragazzo da Antonio Spagnuolo… c’erano incontri settimanali, andavo a casa sua e lui prendeva le mie poesie dattiloscritte, le leggeva e poi cancellava, appuntava ma non lo faceva certo solo con le mie poesie… prendeva a caso un libro di Montale e diceva vedi qua avrei scritto così, qua va bene… prima ancora di regalarmi un suo libro di poesie mi consigliò di procurarmi un dizionario dei sinonimi e dei contrari.
Antonio ha avuto un forte ascendente ed è stato sempre disponibile con tutti i giovani poeti. Ha avuto il grande merito di incoraggiare chiunque avesse scelto la strada della poesia. Beh.. quando ho ripreso a scrivere avevo bisogno di recuperare… allora ho incominciato ad ascoltare Philip Glass stando seduto con la tastiera davanti, il foglio bianco ed è divenuto altro… ho avuto una seconda possibilità e non l’ho lasciata perdere.


DM:

“I reading: mi racconti come, quali, quanto e soprattutto perché? Dove ne vorresti organizzare uno?”

GA:
I reading sono l’ultimo elemento della mia esperienza poetica… ricordo ancora quelli di diciassette o diciotto anni fa, nei locali del centro storico di Napoli, con Silvio Talamo, Marco Nieli, Vozla ed Emilio Piccolo, con la chitarra blues di Franco Sansalone; per darti un’idea ti cito solo alcuni titoli delle serate: “Rutti e lutti d’amore”, “Beatrice il mio cuore è pieno di turbamenti”… Già da allora ero consapevole che la poesia deve essere cantata, deve divenire corale, deve essere celebrata, interpretata da diverse voci, deve mescolare e shakerare diverse forme e sensibilità artistiche. Da un paio d‘anni ho ripreso a fare reading, ne metto su uno per anno e lo “giro” nei luoghi che più mi piacciono; sono sempre accompagnato dalla solidale amicizia e dalla bravura di Vozla e Arturo Castaldi. L’ultimo in ordine di tempo è stato Pork Poetry Blues, incastonato nel fascino della stupenda piazza Bellini da Evaluna (storia libreria della piazza, ndr), in questo “evento” la calda chitarra blues d’accompagnamento è stata quella di Giacomo Basso.
Ogni luogo è buono per fare dei readings ma preferisco posti piccoli, raccolti e soprattutto “misti”, con un pubblico eterogeneo per età ed estrazione sociale e culturale. La formula che propongo è semplice. Spesso proviamo solo una volta e questo aspetto forse deve essere migliorato. I reading devono affascinare il pubblico, e, credimi, me ne stupisco ogni volta, è sempre presente numeroso e attento. Sarà il passa parola con i social network o la voglia di passare una serata diversa, la curiosità…comunque alla poesia non si rimane indifferenti e questo fa piacere.
A Napoli c’è un certo risveglio per iniziative come i reading o per serate in cui il palco viene concesso a libere voci. Ogni tanto partecipo anch’io ad alcune di queste, ci passo, incuriosito e per capire chi sono oggi i giovani poeti che sferzano parole e passione e cosa di nuovo bolle in pentola.

DM:

“Camera Buia, curioso. Mi ricorda un posto a Napoli sui gradini vicino a una piazza, scorcio inesauribile d’ispirazione: per dove era, all’alba degli anni ’90 quando la città era più mitopoietica di oggi; per la gente che ci passava, per le notti spese in un locale lì nei pressi (Caffè della Luna). Ma Camera Buia mi fa anche pensare a un éscamotage sintattico per non dire camera oscura (la fotografia che tanto assomiglia alla poesia): il posto dell’alchimia, dove tutto nasce. Come mai hai scelto questo titolo per la raccolta ongoing di poesie che hai sul tuo blog (http://giorgioanastasia.blogspot.com/) ? Non mi sembri un performer, ne’ tantomeno un poeta maudit da penombra o notte o post hangover..”

GA:

Quando ho ripreso a scrivere non mi sono reso conto subito che stavo realizzando un progetto con dei contorni ben definiti. Il titolo è nato una sera, anzi una notte perché, come ti ho già detto, scrivo quasi sempre di notte con una luce soffusa, quasi impercettibile. Ma non sbagli accostandola a qualcosa di simile ad una camera oscura: un processo parallelo e corrisposto dove avviene appunto una trasformazione, uno sviluppo, un presa di posizione, la creazione di un’immagine - che una volta fissata può solo corrompersi.
Inoltre credo che ognuno di noi ha la sua Camera buia e cerca di viversela come può, con i propri mezzi e strumenti: a volte può essere pesante e a volte basta semplicemente aprire una finestra per renderla meno buia. Sono una persona molto riservata, non amo mostrarmi e nemmeno considerarmi un poeta maledetto o un ubriacone da quattro soldi anche se la birra e il rhum sono spesso le mie compagne più fedeli; per questo mi rinchiudo nella mia Camera che, per fortuna, è meno buia del primo giorno che l’ho aperta. Col tempo, ti dirò, sta acquistando una sua luce piena e calda.

 

DM:

“Quando è nata Camera Buia, quante poesie ha? Hai una stima dei tuoi lettori? Hai pensato anche a una forma audio a parte i frequenti consigli per gli ascolti che regali soprattutto da fb? Che importanza ha la lingua madre del poeta? Scriveresti in un’altra lingua, vorresti ti traducessero? Scriveresti su commissione come gli scrivani di una volta o come i ritrattisti di granduchi e cardinali e scomode principesse a cui regalare un giardino per gli incontri clandestini?”

 

GA:

Camera Buia è nata circa tre anni fa ma la sua forma strutturata è stata realizzata con il blog ad aprile dell’anno scorso ed è una summa del percorso poetico di questi tre anni, conta quasi 120 poesie ed è ancora in divenire… Ha avuto 7 mila visite da ogni parte del mondo (Spagna, Francia, Germania, Russia e altri paesi europei ma anche Stati Uniti, Canada e Sud America, Tunisia, Algeria, Iraq, India, Cina, Australia…). Per ora sono affezionato alla mia lingua madre proprio per il lavoro di ricerca e studio sulla parola, i suoni, i sensi e i significati che producono all’infinito, però, chissà, potrebbe succedere che ci siano delle traduzioni in più lingue, comunque nella prima stesura in italiano resta sempre il segno inconfondibile dell’autore.
Allo stesso tempo, rimango dell’idea che la poesia non è di chi la scrive ma di chi la legge, quindi a ciascuno il piacere e il compito di fare quello che più gli aggrada. Vorrei chiudere questa piacevole chiacchierata a due voci citando un autore a me molto caro, proprio perché Camera buia è scritta per gli amori clandestini: “Guarda l’essere che ami nel cuore di un paese: vedrai, se l’amore è forte, quanto è grande il paese del tuo cuore, e come esso è un regno, e come la tua e quella dell’essere amato volga ad essere la signoria senza schiavitù.” (di Giorgio Cesarano da L’insurrezione erotica).