La Mostra del Cinema: tante star e tanti temi politici, anche nei premi

Tutte le nostre micro-recensioni

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27-08-2019
categorie: Cinema,

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La Mostra del Cinema: tante star e tanti temi politici, anche nei premi

Tutte le nostre micro-recensioni

Una mostra del cinema double face: dalle grandi star ai grandi temi politici. La 76ma edizione del festival cinematografico più atteso dal pubblico ospita in laguna un parterre di star (compresi Brad Pitt e Imam, Catherine Deneuve e Juliette Binoche: madre e figlia del film d’apertura La Veritè di Kore-eda Hirokazu). Ma sono le pellicole a essere le vere protagoniste (insieme a una imperdibile mostra di polaroid al Des Bains che ha già aperto al pubblico).

 

Due Leoni d’Oro ritornano in competizione.

Steven Sodebergh (l’indimenticabile Sesso Bugie e Videotape gli valse il massimo riconoscimento) è forse il più atteso con Laundromat un film sui Panama Papers, sceneggiato da Scott G. Burns e distribuito da Netflix (che ha un altro film in competizione: Marriage Story con Adam Driver and Scarlett Johansson e The King dell’australiano David Michod con Thimothée Chalamet fuori concorso).

Roy Andersson riporta il sogno e lo spiazzamento al centro del soggetto con Om det oändliga (Sull’Infinito) dopo aver vinto (più recentemente di Sodebergh) un Leone d’Oro con Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza (2014). Il prolifico e anziano regista svedese è in realtà da sempre impegnato nella produzione di documentari politici e sull’ambiente.

Due le donne in concorso per il Leone (la saudita Haifaa Al-Mansour con la commedia The Perfect Candidate e l’australiana Shannon Murphy con addirittura il suo film di debutto, Babyteeth).

Pari merito a USA e Francia: entrambi i paesi portano 26 tra produzioni e co-produzioni (conteggiando tutte le sezioni, inclusi corti e Virtual Reality). L’Italia ne conta 28 inclusi i restauri dei Classici. Sono proprio questi ultimi i protagonisti della serata di Pre-Apertura il 27 agosto, con Extase (Estasi, 1932) scritto e diretto da Gustav Machatý, con Hedy Kiesler (poi Hedy Lamarr, come fu ribattezzata a Hollywood), prima mondiale in 4K.

Belga (e francese) il debutto in inglese per un thriller ad alta tensione di Olivier Assayas, Wasp Network, molto atteso dalla critica del pari.

Tre gli italiani in concorso sud 188 film proposti: Mario Martone con l’adattamento cinematografico de Il Sindaco del Rione Sanità (era presente anche l’anno scorso dove ha rimediato un premio per la colonna sonora del suo Capri-Revolution); Franco Maresco con la continuazione ‘ideale’ del suo Belluscone. Una storia siciliana: La Mafia non è più quella di una volta. Il protagonista delle feste di piazze protagonista del primo film racconta nostalgico della ‘mafia di una volta’ insieme alla grande fotografa Letizia Battaglia che quella mafia l’ha seguita con i suoi incalzanti reportage per una pellicola in dialetto siciliano che farà come sempre innamorare e inorridire insieme il pubblico anche straniero; Pietro Marcello con la prima pellicola di finzione, un suo Martin Eden dal celebre romanzo di Jack London.

Il cinema brasiliano - a dispetto delle critiche levate a Bolsonaro per la chiusura dell’ente di finanziamento (alcuni parlano di censura, altri dicono che quell’ente era una torre d’avorio difficilmente contestabile ed attaccabile) - porta quattro titoli a Venezia, ci incuriosisce Babenco un docufilm sulla vita di uno dei più famosi registi del paese, nato argentino, diretto e prodotto dalla moglie (la cantante, attrice di reality e di teatro Barbara Paz) ad Orizzonti.

Sempre ad Orizzonti, spicca il film italiano prodotto da Matteo Garrone, scritto e diretto dalla sua (ex) compagna Nunzia di Stefano, Nevia che parla di una storia dal sapore fortemente autobiografico di un quartiere che ci interessa molto perché ci abbiamo già lavorato in passato con progetti artistici. E’ la storia di una teenager che vive la sua adolescenza in un container nella lunghissima (e mai ancora terminata) ricostruzione post-sisma del 1980: le unità abitative precarie resistono ancora e continuano ad essere una casa per umani ancora più sfortunati dei residenti.

Per finire i numeri di questa edizione (senza contare le Giornate degli Autori e la Settimana della Critica): 63 lungometraggi (di cui 21 a Venezia 76, 17 fuori concorso di cui 10 documentari; 19 ad Orizzonti ed il resto nelle altre sezioni, Sconfini e College Cinema); 18 corti (13 in concorso ad Orizzonti), due serie TV (tra cui The Young Pope prodotto da Sky), 36 opere di Virtual Reality in visione su prenotazione al Lazzaretto Vecchio; 20 lungometraggi restaurati nella sezione Venezia Classici.

 

 

Exstase, Pelican Blood, The Perfect Candidate

 

Nella straordinaria mostra di foto d’archivio dell’ASAC ospitata l’anno scorso (in occasione della 75ma Mostra del Cinema) al Des Bains riaperto per la prima volta, uno dei fotogrammi più belli e spiazzanti era proprio dedicato a un frame di Extase. Che quest’anno celebra la 76ma Mostra del Cinema con la consueta serata di pre-apertura (dedicata ai veneziani) e due proiezioni per il pubblico. No glamour ma tanto (e pregevole) lavoro di restauro per recuperare una pellicola del 1934, passata alla seconda edizione della Mostra al Lido (allora all’Excelsior ed ancora biennale) e salutata da un enorme successo di critica e di pubblico.

‘Pare Mussolini si sia fatto spedire una copia per una visione privata, ma è stato proprio l’enorme successo - e una diffusione enorme: copie in ceco, tedesco e francese - a ‘condannare’ questo film a molte versioni diverse anche per questioni di censura e quindi poi ad una dispersione dell’originale.’ ha annunciato Alberto Barbera (direttore della Mostra), durante la presentazione che proiettava proprio quella copia ‘ritrovata’ a partire da un lavoro complicato di raffronto e ricostruzione e da una digitalizzazione all’avanguardia che restituisce la grana ed i segni del tempo. 

Restaurato a partire da tre copie conservate in altrettante cineteche europee e un positivo da negativo conservato all’Istituto per il restauro Ceco grazie ai fondi privati di una coppia di coniugi appassionati, il famoso film di Gustav Machatý ha riempito la Sala Darsena e ha stupito per la modernità del suo linguaggio. 

A cavallo tra il muto e i primi film con dialoghi, Exstase sarebbe oggi definito un arthouse movie per via dello spiazzante uso della fotografia di paesaggio e per l’inconsueta modalità di scavare dentro le emozioni delle persone. 

Una giovane donna di buona famiglia si sposa con un uomo algido, egoista e più vecchio di lei che la tradisce e non la soddisfa neanche sessualmente (il film inizia con la prim notte di nozze non consumata). 

Lei - viva, vibrante e soprattutto colta - resiste quanto può ma infine ritorna alla casa paterna, chiede il divorzio e si apre al piacere con un altro uomo - orgasmo compreso, ritratto in una situazione bucolica e straordinariamente in sincrono con la lussureggiante natura circostante. 

Una tragica fatalità che culmina con il suicidio dell’ex marito la porterà a scappare dall’amato ma il finale sospeso e sibillino presagisce addirittura una maternità da single. 



Pelican Blood (Pelikanblut, 121’) è un film tedesco che gioca a mischiare horror, dramma e psicologia. Non sappiamo quanto ci riesca bene (a me è piaciuto fino a un certo punto e il primo pubblico che l’ha visto insieme a noi giornalisti era piuttosto freddino). Tuttavia la storia è molto ben narrata e le scene convincenti. 

Wiebke (Katrin Hoss) ha 45 anni e di mestiere alleva e doma cavalli, ha un suo maneggio e tutto pare perfetto. Vive con la sua figlia adottiva (Nikolina, 9 anni) e sembra avere del tenero con uno dei poliziotti che vengono ad allenarsi con i suoi cavalli, anche lui padre single. La diversità è tutta in Wiebke, che non ha un compagno e adotta bambini. 

Il suo volto coriaceo disegnato dai segni del tempo e delle stagioni si illumina quando viene informata che un’adozione internazionale aveva finalmente portato a termine il suo processo e presto sarebbe arrivata Raya, la sua nuova figlia e la sorella (tanto attesa) per Nika. 

L’incubo è alle porte ma nessuno di loro se lo aspetta: Raya si rivela affetta da un pericolo disturbo collegato ad una reazione più che normale a protezione delle atroci sofferenze subite. La madre non si arrende, si affida agli psicologi e dopo un fai da te assai pericoloso in fatto di cure, come ultima spiaggia arriva alla magia nera. Quando tutto sembra perduto….

Al di là di cosa vi farà provare il finale, esso riscatta una visione della genitorialità e delle scelte obbligate che spesso fanno tutt’uno con le costrizioni morali.

L’anno scorso l’apertura di Orizzonti era toccata a ‘Sulla mia pelle’ - il film Netflix sulla storia degli ultimi sei giorni di vita di Stefano Cucchi (se non l’avete ancora visto ve lo consiglio!) - ed era tutta un’altra musica.

Katrin Gebbe, la regista ed autrice di questo film, lo porterà anche a Toronto a settembre.

Voto: 5

   

Haifaa Al Mansour è la prima regista donna ad affermarsi in Arabia Saudita (studi al Cairo e a Sydney): porta a Venezia The Perfect Candidate una sorta di bitter comedy in cui offre uno spaccato assai realistico del regno saudita e della condizione delle donne raccontando di una famiglia unita, molto progressista composta da padre e tre figlie tutte giovani e senza marito - dove aleggia lo spirito della madre morta da poco (una cantante come il padre). La protagonista del film è la figlia maggiore della famiglia, che di mestiere fa la dottoressa in una clinica: si candida alle elezioni municipali come ultima spiaggia per affermare il suo diritto ad esistere e tutte le istanze sempre negate al lavoro ma anche per continuare a portare avanti le istanze femminili.

La regista vuole puntualizzare anche come non solo il cambio di passo nei confronti delle donne ma anche il ritorno ad un più sereno rapporto con le arti beneficerebbe il paese e lo salirebbe dall’oscurantismo in cui è precipitato.

Mansour ha vissuto il cambiamento notevole (per il meglio) della situazione nel regno sulla sua pelle: quando ha fatto il suo primo film era anche duro trovare dei cinema e l’industria nel 2011 praticamente non esisteva. Ma ancora molto, molto lungo è il cammino per la modernizzazione!

Voto: 6

 

 

Marriage Story ipoteca qualche premio


Marriage Story, scritto e diretto (oltre che prodotto) da Noah Baumbach (uno dei film più attesi targati Netflix, sulla piattaforma dal 6 dicembre) ipoteca qualche premio di sicuro in area recitativa. E si conferma essere come il più amato di questi primi due giorni di proiezione. 

In concorso a Venezia76, è la storia di una coppia bobo attiva lui nella regia teatrale d’avanguardia e lei nella recitazione hollywoodiana e tv, che si incontrano ad Est e dividono un figlio fortemente voluto ma sono divisi anche dalle loro città d’elezione (lui vuole sempre restare a NYC e lei sempre tornare a LA). 

Una straordinaria Scarlet Johansson recita senza riserve il ruolo di una donna (e di una madre) tradita dalle ambizioni assai auto-referenziali del marito (e da un suo tradimento di bassa leva con la scenografa della loro compagnia teatrale) e ha il coraggio, piano piano, di trovare di nuovo la sua strada. Non sa come, non sa perché ma questa strada condurrà al divorzio che le fa di nuovo guadagnare fiducia in se’ stessa inevitabilmente precipitando la vita del marito in un inferno tutto nuovo, in cui si divide tra la East e la West Coast per non perdere grip sul figlio e, ça va sans dire, su di lei. Nonostante il film racconti un divorzio, racconta anche l’inevitabilità del matrimonio e dell’unione al di là della legge, soprattutto in presenza di un figlio. E il finale vi sorprenderà!

E’ un film complesso nella sua schiettezza, in cui lei si supera nella recitazione perché (come ha raccontato in conferenza stampa) quando le è stato proposto di lavorare con il regista ed autore di Brooklyn (la storia ha un sapore estremamente autobiografico considerando i luoghi dove lui gira come Park Slope) lei stava affrontando il suo secondo divorzio. 

E’ un film che esamina senza alcuna reticenza i ruoli di una coppia creativa che si separa ridiscutendo le proprie vite senza un punto di ritorno eppure, senza sapere come andrà a finire, in fondo ritiene e coltiva un profondo rispetto ed una voglia di non lasciare spegnere la fiamma della comunicazione, se proprio l’amore è inesorabilmente tramontato.

Anche la recitazione del padre e marito (Adam Diver, volto noto del cinema USA) è di una grande caratura, senza lesinare un fine cesello sulla genesi della commozione in un uomo. 

Ad alto tasso di kleenex, il film è al contempo una vivace commedia (soprattutto grazie al ruolo di Laura Dern) che strappa non poche risate. Fa anche il verso a certe nicchie culturali e a certe considerazioni sulle due grandi antagoniste dell’America dell’oggi (ora che San Francisco assiste a una fuga inesorabile per il costo della vita e l’egemonia hi-tech): New York e Los Angeles. Se la prima si vive a piedi, la seconda ‘ha spazio’, un enigmatico commento che scaturisce sempre quando è la freddura e la risata a stemperare un vortice di sentimenti ed autoanalisi davvero esiziali ma implacabili. Il trattamento cromatico delle due città, paradossalmente, è stato lo stesso pur essendo agli antipodi per luce ed architetture e il regista lo ha fatto scientemente con il suo scenografo!

Colonna sonora originale e montaggio in cui abbondano lunghissimi primi piani alternati a interni mozzafiato, il film racconta anche la versatilità di Baumbach come autore: passa dai documentari a film come Madagascar 3, Mistress America, Frances Ha. Per questo film, trattando un argomento così personale come il divorzio (che ha vissuto da figlio e anche da marito), si è documentato a lungo con interviste ad addetti ai lavori e coppie. 

Il 29 agosto alle 19 in Sala Grande e alle 20 in Palabiennale, il 30 agosto alle 8.30 in Palabiennale, Non perdetelo.

 

 

Il cinema tibetano ad Orizzonti con Balloon

 

Ad Orizzonti il cinema asiatico si fa largo con pellicole (e storie) di qualità. E, ora che la sezione più interessante della Mostra del Cinema si svela, è possibile viaggiare restando fermi attraverso tutte le cinematografie del mondo. Il pubblico si conferma sempre assai numeroso ai vari question time con gli autori.

Pema Tseden - filmmaker e romanziere tibetano - è accolto anche quest’anno benissimo a Venezia dove presenta in anteprima mondiale il suo Balloon una storia che ha scritto a partire dall’ispirazione casuale di un pallone che volava nel cielo, abbandonato dalla mano di un bambino. 

Dargye e Drolkar - una coppia di coniugi tibetani affiatati e giovani, lui allevatore di pecore lei casalinga - hanno tre figli e vivono con il nonno in una zona rurale (un lago vicino alla città natale del regista). 

I preservativi, recuperati gratuitamente al locale ospedale dove tra mille imbarazzi Drolkar spiega alla dottoressa che vorrebbe legarsi le tube - vengono sempre sottratti dai più piccoli di casa che li fanno diventare dei palloncini con sommo imbarazzo degli adulti: il controllo delle nascite (la storia, come ci ha detto il regista, è stata scritta datandola a fine anni 90 per dare voce alle preoccupazioni ed ai temi cari alle donne del suo paese) è stato molto severo in Cina (e Tibet) con multe salate per chi continuava a procreare. 

 

La mentalità arretrata del fare molti figli a discapito delle possibilità di istruzione e di benessere da dare a ciascuno si scontra con una serie di accadimenti che modificano il corso degli eventi e coinvolgono il piano più religioso della comunità e il significato profondo della reincarnazione. 

La fotografia di questa storia è straordinaria (tutta in digitale, la firma il giovanissimo Lu Songye): riesce a tradurre sempre bene il doppio registro del film, una storia molto vera e concreta ed un livello spirituale difficilmente traducibile in immagini.  

L’attore principale che interpreta Dargye è il noto performer e poeta Jinpa, il cui omonimo film valse l’anno scorso a Tseden il premio a Orizzonti per la migliore sceneggiatura (il lavoro era prodotto da Wong Kar-way).

Voto 7,5

 

Il cinema filippino a Orizzonti 


Raymund Ribay Gutierrez, regista filippino venticinquenne già due volte nominato come migliore corto al Festival di Cannes, porta il suo primo film di finzione - non di meno basato su un’incessante ricerca preparatoria che lo ha visto intervistare dozzine di coppie ed addetti ai lavori - a Orizzonti, strappando un’incredibile sequenza di applausi. 

Verdict racconta una di mille storie di violenza domestica (diversi i film a concentrarsi su questo tema molto attuale), uno dei crimini più perpetrati nelle Filippine. Il film si svolge tutto nei sobborghi poveri di Manila.

Prevalentemente girato in interni - a volte claustrofobici, a volte molto funzionali a tradurre il determinismo ambientale e certa cultura del paese - la storia narra di una giovane moglie, Joy, la quale smette di subire le botte del giovane marito quando una volta lui arriva a picchiare seriamente anche la bambina spaccandole la fronte. 

Decide di denunciarlo e di andare in giudizio. Per un paese in via di sviluppo, come afferma anche il regista nel question time con il pubblico, la prima parte della macchina funziona bene (denuncia ed arresto del colpevole) ma la seconda (intraprendere e vincere la causa legale) risente di tutta la fragilità di un sistema che continua ad essere molto in favore della figura maschile, anche di fronte ad ogni evidenza. Rivelatrice e ben costruita la scena in cui i poliziotti fanno irruzione a casa della coppia per cercare il marito e trovano lo shaboo sparpagliato ovunque (è la potente droga simile al meth, diffusissima in Asia e ora anche in Europa), e dicono ‘lascia stare, non siamo stati chiamati per droga ma per violenza domestica!’. 

Non solo le ottime prove attoriali (il film parla di una violenza inaudita ma anche di un’incredibile dedizione genitoriale da entrambi i lati) ma soprattutto un’implacabile scrittura-verità fanno di questo lavoro uno dei papabili per un premio.

Voto: 8


 
Madre: incetta di applausi ad Orizzonti 


8 minuti di applauso: Madre di Rodrigo Sorogoyen ipoteca qualche riconoscimento ed in ogni caso ha avuto già quello del pubblico in sala. Produzione franco-spagnola, è nato da un cortometraggio (come del resto anche Pelican Blood, ma non con la stessa fortuna pur parlando di maternità) che nel 2011 ha vinto oltre 40 riconoscimenti nei migliori festival internazionali. Definitivamente è la continuazione della stessa storia da dove si è interrotta, tuttavia dieci anni dopo. 

Una giovane madre spagnola separata riceve, nel bel mezzo di un pomeriggio qualunque, la telefonata da suo figlio di sei anni, che si trova in vacanza in camper con il padre. Con il cellulare quasi scarico, prima di perdere la comunicazione, il bambino, spaventato, fa in tempo a dirle che il padre si è allontanato da molto tempo, che lui è solo e non sa dove si trovi (vagamente, una spiaggia in Francia con a destra delle rocce e a sinistra campo libero) e che un signore, che aveva appena ‘fatto pipi’ si stava avvicinando a lui. Nessun altro nei dintorni, del padre nessuna traccia.

Il figlio alla fine sparirà e il film non racconta della parte giudiziaria di questa vicenda ma della madre che nel frattempo su quella spiaggia è andata a vivere annegata in una patina di dolore, dirigendo un ristorante. I suoi giorni sono tutti uguali, come possiamo immaginare ha un pessimo rapporto con i cellulari e con ogni forma di comunicazione. La sua vita si anima d’un tratto quando in mezzo ad un gruppo di ragazzini che fanno scuola di surf vicino al suo ristorante ne fissa uno, che ha l’età di suoi figlio adesso (16 anni, contro i 39 di lei) e che sembra gli rassomigli. Inizierà una storia di affezione ed attrazione che la metterà in difficoltà e che le lacererà di nuovo la vita, scombussolando non di poco quella del giovane adolescente, assai maturo per la sua età e seriamente invaghito di lei. 

Niente è come sembra in questo film, niente sarà come prima dopo. Sorogoyen, che firma anche la sceneggiatura, adotta scelte non convenzionali, a cominciare dai titoli di testa e di coda: la pellicola si snoda con un ritmo insolito mischiando molti generi cinematografici e le inquadrature - in cui del pari si mischiano scene super pulite ad altre molto rough - hanno dei campi larghissimi che tendono ad aumentare le sensazioni provocate dai dialoghi. L’imprevedibilità e la cifra struggente si combinano anche nel finale, che ancora una volta lascia un’interpretazione assai soggettiva allo spettatore. 

Se vi appassionerà il suo stile, Il Regno, il suo ultimo film prima di questo (un tesissimo thriller), esce il 5 settembre 2019 in Italia. 

Voto 8
 

 

Arriva The Painted Bird , 169' in bianco e nero di puro orrore di guerra 


Dura 169’, totalmente in bianco e nero. The Painted Bird è un film degli orrori più ferali mai visti tutti insieme che racconta la lunghissima fine della II guerra mondiale in un non precisato brano di campagna cecoslovacco quando bande di soldati tedeschi e russi imperversavano in poveri villaggi, i treni delle deportazioni degli ebrei ancora sfrecciavano nei campi di grano con il loro mesto carico che spesso cercava di liberarsi e veniva sparato e bruciato sull’istante, creando isole fumose nelle messi. Il sole, imperturbabile sopra tutta questa miseria e violenza, si staglia inevitabilmente uguale a se’ stesso, definendo un grigio orizzonte.

Il film racconta la storia di un bambino amato, di buona famiglia e molto piccolo che viene nascosto dai genitori da una madre surrogata in aperta campagna, di modo che loro cercassero di scampare lo sterminio e poi di ricongiungersi a lui. 

Il bambino assiste alla improvvisa morte della sua tutrice, la casa va a fuoco e da allora cammina ramingo senza sosta, passa da un carnefice all’altro tra cui, in ordine sparso, una fattucchiera che lo usa come scaccia-spiriti, un mugnaio pazzo, un vagabondo che vende uccelli canterini, un pedofilo che lui riesce finalmente ad uccidere, infine una ragazza che del pari lo violenta e due eserciti - quello tedesco e quello russo - dove in mezzo ad angherie e botte indicibili trova due anime pie, le uniche che insieme a un prete cercano di trattarlo con umanità. Viene voglia di leggere il libro omonimo da cui è tratto, autore Jerzy Kosiński per sapere se il regista Vaclav Marhoul ci ha risparmiati qualcosa oppure no, incluso il numero di morti a cui assiste il bambino. Che alla fine viene trovato, assai rocambolescamente, da suo padre e ovviamente siccome mai nessuno lo ha più chiamato per nome egli sembra averlo dimenticato - di sicuro ha perso la parola da tutto l’orrore subito in due anni di soprusi sempre peggiori. Si capisce che scorre il tempo dalle stagioni che lo vedono spesso soccombere al gelo.  

Nonostante tutto, il bambino (il cui nome rimarrà misterioso fino all’ultima scena) ha perso la favella ma non l’umanità e sebbene il film non parli del dopo, fa presagire che una diversa sorte gli sarà data in dote.

Il pubblico (nella mia proiezione era solo di addetti ai lavori) è rimasto letteralmente muto e fermo alla fine: nessun applauso, nessuna reazione. Forse troppa verità? Forse troppa chiarezza, meglio crudezza, nel raccontare da dove è venuto questo orrore che ora si chiama Europa Unita e solo ora è contro ogni futura guerra (si spera)?

Notazione a margine: i produttori di questo film sono una coppia (che abbiamo già nominato a proposito di Exstase, dato che ne hanno pagato il restauro), si tratta di Milada Kučerová ed Eduard Kučera (noto imprenditore ceco e proprietario di Avast Software). E il regista ha dichiarato che a spingerlo a fare questo film (monstre, aggiungiamo!) era proprio il trattamento del ‘bambino’ da parte dello scrittore che non gli fa perdere mai l’umanità. L’attore giovanissimo che impersona il protagonista è un absolute beginner, non ha mai recitato in vita sua prima di questa ciclopica prova.

Sarebbe bizzarro vedere questo film sul podio (e dal voto che gli diamo vi consigliamo di vederlo se non siete ne’ deboli di cuore ne’ di stomaco) ma non sarebbe affatto bizzarro che Joska/Petr Kotlar vincesse la coppa Volpi.

Voto: 8

 


 

Om det oandliga (Sull’infinito) di Roy Andersson: l’abbecedario umano 
 

Ci eravamo già abituati, un altro suo film dal titolo impossibile (Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza) ha vinto un Leone d’Oro proprio qui a Venezia ma Om det oandliga (Sull’infinito) è più potente e più – se possibile, dato il genere – divertente, anzi strappa non poche grasse risate. Andersson crea una serie (quasi infinita, come il titolo) di piccoli, struggenti, perfetti tableaux vivant con personaggi tutti uno diverso dall’altro – anche se a volte ritornano, uguali a se’ stessi - e apparentemente senza legami.  A tenere tutto insieme i colori pastello, le ambientazioni perfette e la pressoché totale assenza di luce diretta o di sole (così come di ombre). E’ un affresco magistrale della fragilità e della potenza dell’essere (veramente) umani.

E’ come tagliare a fette (orizzontali) o carotare una comunità e vedere cosa si è tirato su o cosa si è ‘disossato’: il prete che non crede più in Dio e che ha bisogno d’aiuto; un uomo ossessionato dal suo ex compagno di scuola che non lo saluta mai; una donna che beve una birra ed è scambiata per qualcun’altra…persino gli ultimi giorni di Hitler…

In apertura una coppia nella loro terza età ripresi di spalle su una panchina di un giardino ordinario che domina, come una terrazza, la città: guardano uno stormo che emigra e riflettono sul fatto che sia già settembre: poche misuratissime parole vanno di pari passo ad un’inquadratura studiata fino al midollo persino nella porzione di foglie o nel modo in cui cade la fibbia della borsa ma mai stucchevole, mai ridondante. La V dello stormo è perfettamente al centro ma non è leziosa, la proporzione nel punto di fuga è commovente quanto è leggiadra senza essere troppo perfetta.

In chiusura di pellicola una macchina in panne e il guidatore, anch’egli nella sua mezza età, che cerca di capirne le meccaniche. Su tutto domina il principio della termodinamica, il primo, enunciato dagli unici personaggi adolescenti ritratti (è proprio il caso di dirlo!): l’energia vive all’infinito. Non si crea, non si distrugge, degrada solo in altre forme.

Ogni volta che vedo un film di Andersson ringrazio di poter affogare nell’unicità del suo linguaggio: da una sua opera qualsiasi regista ne farebbe centinaia, quelle immagini così perfette nel loro essere aforismi – vere e proprie vignette ultra-veriste, nella loro complessità e a volte tragicità, più che storie – riempirebbero sogni e istanze per 50 anni a venire. Non è un cinema sofisticato per le parole che adopera ma per la commistione unica capace di astrarre e radicare contemporaneamente.

Non stupitevi del nostro voto, anche perché questo cinema non genera compromessi: o si odia o si ama.

Voto: 9

 

 

Babyteeth vi entrerà nelle ossa come mai niente prima


Il cinema è ‘utile’ non solo quando tratta di temi politici o rivela fatti inattesi, ma anche quando si occupa (e questo lo fa magistralmente) di temi molto scottanti quali la malattia e, attraverso essa, le nostre grammatiche dell’amore da una prospettiva singolarissima.

Quante famiglie convivono con un parente ammalato di cancro, magari il proprio figlio? La regista australiana Shannon Murphy porta in concorso a Venezia Babyteeth il suo primo lungometraggio (grazie a Screen Australia che anche negli anni scorsi ha traghettato al Lido ottime pellicole dal continente lontano). E ipoteca qualche piazzamento serio, a mio avviso. E’ una storia di fiction (la sceneggiatrice è Rita Kalnejais) che sembra quasi venire dalla porta accanto tanto è portata ai vostri occhi in punta di piedi.

La scena si apre su Milla, 15nne in uniforme della scuola, che pensa di farla finita d’impulso  sotto il treno che dovrebbe portarla a scuola. Altrettanto d’impulso un giovane junkie, Moses, la salva – senza sapere dove questo lo condurrà e quanto lontano: ad amare per la prima volta e quindi ad amarsi, infine a disintossicarsi.

La storia si sviluppa affatto prevedibilmente, raccontando sì del cancro di Milla (senza dogmi ma senza neanche indulgenza od ossessione) ma soprattutto della sua incredibile voglia di vivere che contagia a tal punto Moses che decide di cambiare vita e che, inizialmente avverso ai genitori, le starà accanto fino all’ultimo respiro proprio per volere del padre – psichiatra e più junk di Moses dato che abusa della morfina che prescrive ai pazienti e fa drogare la moglie, ex concertista che smette per seguire la bambina poco dopo la sua nascita, con un sacco di psicofarmaci).

La fotografia del film – diviso in capitoli di grande, innocente umorismo  - è molto sofisticata alternando inquadrature classiche e intuizioni da videoclip così come sofisticato è il ritmo impresso alla recitazione sempre in bilico tra dramma e risata, tra lucida follia e climax sentimentali. La storia restituisce una società sghemba, che potrebbe essere ogni dove anche se è ambientata a Sydney. Genitori disfunzionali sembrano essere sempre sul punto di cedere alla propria insufficienza e figli sfortunati spesso insegnano quanto di più prezioso ai primi – l’amore non può avere confini, nel bene o nel male.

Il ritmo della pellicola, che mi auguro cercherete e vedrete ancor di più se siete vicini all’argomento, è quindi niente affatto scontato e il finale vi meraviglierà ancora di più di quanto ogni scena abbia fatto fino a quel punto.

La regista ha dichiarato di sperare che il pubblico, vedendo il suo film, abbia ‘un’esperienza viscerale che entri nelle ossa e dia da ora in avanti la forza di andare a fondo, veramente a fondo, in ogni relazione’ perché questo è l’unico modo che abbiamo di celebrarle. E di renderle, in un certo senso, parte di noi per sempre.

Toby Wallace, il giovane attore che impersona Moses, meriterebbe anch’egli un riconoscimento ma non accade mai per le cinematografie di paesi così lontani e per new upcomers. Origini inglesi, cresciuto in Australia, anche lui viene dal teatro come del resto la regista e la sceneggiatrice (questa storia ha visto la luce per la prima volta su un palco, registrando il tutto esaurito per una stagione intera). Tenetelo d’occhio, è anche su Netflix nella serie tv The Society.

Voto: 8,5

 

 

Giants Being Lonely è un caso, una piccola perla in concorso ad Orizzonti


Due 25nni (uno è un artista visivo ed ora anche regista, Grear Patterson, l’altro è un producer, Olmo Schnabel figlio di Julian) si alleano per fare un film straordinariamente potente per essere il primo lungometraggio di Patterson dedicato alle difficoltà degli adolescenti in una zona rurale e un po’ disconnessa (potrebbe essere ovunque, ma è ambientato in North Carolina, nella vera casa che fu di Grear).

Il film ha un titolo importante, che basterebbe a farvelo scegliere caso mai viviate in una città non come quelle italiane – dove non esistono solo che pochi distributori piatti e si ha invece la possibilità di veder qualsiasi genere di film: Giants Being Lonely. Deriva da un verso di un poeta (Carl Sandburg) e si apre con la citazione di una frase di un artista visivo (tra i mie preferiti), Raymond Pettibon che suona più o meno così: “Life is a misery and I do not know when death may come. Play Ball!’ (la vita è una miseria e non so quando la morte verrà. Gioca a palla!).

300 ore di film (girato da entrambi ma più da Grear fieramente senza post-produzione o photoshop) e ovviamente autoprodotto, amici e vicini come attori (in particolare due fratelli che si somigliano moltissimo e che interpretano i protagonisti), la pellicola ha delle intuizioni mostruose sul montaggio (non è solo non lineare, cancella completamente lo scorrere del tempo in maniera convenzionale ed annulla qualsiasi riferimento alla temporalità nel senso di anno di ambientazione, luogo e consistenza del paesaggio in senso tradizionale) e sulle direzioni del fuoco della camera . E’ una curiosa combinazione di arthouse movie e thriller psicologico che descrive solo e soltanto moti dell’anima dei singoli, messi insieme (avvicinati) come un ventaglio, un mazzo di carte, una coda di pavone: uno accanto all’altro che si squadernano per mostrarsi. Silenti, dolorosi, esteticamente straordinari come solo un baratro al crepuscolo può essere.

E’ la storia di Bobby, locale campione della squadra di baseball del liceo e di Adam, figlio del coach della squadra e non proprio un asso. Bobby se la cava letteralmente da solo, non ha madre e ha un padre totalmente assente perché alcolizzato anche se affettuoso a suo modo. Adam ha una famiglia ‘tradizionale’ anche se la madre è sempre sull’orlo di una crisi di nervi (e diventerà l’amante ad alto rischio di Bobby) e il padre è assai violento tanto che lo tortura in garage. In mezzo ai due, una giovane compagna di scuola (la più ‘hot’) che fa l’amore con Adam ma vuole Bobby e soprattutto non vuole andare al ballo della scuola da sola. L’epilogo sarà dei più drammatici ma non ve lo svelo.

Grear ha dichiarato di avere avuto una vita molto simile a quella di Bobby e molto presto infatti, da minorenne, lascia la sua famiglia (sapendo questo non è singolare che nel garage della casa di ‘Adam’ che è poi quella della sua famiglia, avviene l’unico dramma della pellicola) e va a New York dove inizia una nuova vita e una carriera di successo. Dichiara anche di aver fatto questo film per quelli che, come lui anche se ora siamo tutti più connessi per via di cellulari e social network, sono una generazione Z: persone sole e con grandi difficoltà a comunicare ma spesso anche a trovare qualcuno attorno per farlo.

Voto: 9.5

 
 

Nevia, un racconto di formazione mozzafiato


E’ alla sua opera prima - in concorso ad Orizzonti - ma Nunzia De Stefano quarantenne napoletana di cinema ne ha masticato parecchio sin da quando ha incontrato Matteo Garrone sul set di Gomorra e dopo non si sono più lasciati per tutti i seguenti film (sono anche, o forse erano, una coppia e hanno un bellissimo figlio). 

Nevia coincide con la sua biografia da giovane, il film è prodotto da Garrone e Rai Cinema: la storia di un’adolescente che combatte per proteggersi (e proteggere la sua giovanissima sorella) dagli appetiti di adulti sbagliati e dalla durissima vita del loro quartiere. Ponticelli, ad est di Napoli, è un luogo dove tra le altre storture, esiste (ancora oggi) il ‘post terremoto’. Tante famiglie come quella di Nunzia hanno vissuto anche per 10 anni in case prefabbricate senza mai avere l’assegnazione di una casa popolare. 

In quelle case precarie si svolge Nevia dove una 17nne senza madre (il padre è in carcere) vive con la nonna ex prostituta, una zia affettuosa e una piccola sorella molto impertinente. Farà di tutto per garantire alla sorella e a sé stessa una vita onesta e si arrabatta con mille lavoretti (non va a scuola) fino a che incontra un circo e si unisce a loro scoprendo che adora lavorare con gli animali e stringendo una particolare amicizia con un circense adulto che rappresenterà un’altra delle sue infinite delusioni. 

Non c’è redenzione per Nevia/Nunzia, non esiste speranza e l’orizzonte resta quello tetro della 

delinquenza e della marginalità (‘come si fa a salvarsi da qui’ ripete come un mantra). Eppure….il finale aperto semina una perla di positività.

Il film funziona magistralmente ed è imperdibile. Dalle riprese straordinarie, vede un cast straordinario di attori professionisti e non in cui figurano la cantante Pietra Montecorvino (nel ruolo della nonna di Nevia), una straordinaria Virginia Apicella a impersonare la giovane Nevia. La fotografia - mai ridondante, anzi molto garroniana - è firmata da Guido Michelotti e la sceneggiatura originale è stata scritta a quattro mani da Nunzia De Stefano e Chiara Atalanta Ridolfi.

Gli applausi del pubblico sono stati incredibili, oltre 8 minuti: il cast intero era presente alla proiezione e la regista si è rifiutata di fare il question time perché la commozione è stata troppa (non solo lei, anche Garrone ha pianto molto).

Voto: 9 

 

 

Franco Maresco porta la mafia e Palermo a Venezia nel suo stile unico e inimitabile 

 

Dopo Belluscone. Una storia siciliana visto a Venezia nel 2014 il grande Franco Maresco di Cinico TV (senza il suo ex sodale Ciprì) torna - in concorso - con una pellicola sorprendente che strappa lunghi applausi e tantissime risate anche se il tema è scottante: a 25 anni dal brutale assassinio dei giudici Falcone e Borsellino cosa resta a Palermo della coscienza antimafia? Il titolo, che è semplicemente perfetto, lascia intravedere una risposta agghiacciante: La Mafia non è più quella di una volta.

Per questa ‘indagine’ surreale (a cominciare dal dichiarato scetticismo del regista sull’anima antimafia di Palermo, è sua la voce fuoricampo che intervista gente comune e riprende commemorazioni pubbliche), due sono i protagonisti della pellicola - che si dibatte tra il documentario e la follia onirica della Palermo ‘felicissima’ anche quando è sull’orlo del baratro, come Maresco ci ha da sempre abituati. 

La voce di Letizia Battaglia, grande fotografa di reportage e battagliera attivista politica al fianco di Leoluca Orlando anche all’età di 83 anni, si contrappone a quella di Ciccio Mira, altro palermitano, organizzatore di concerti di neo-melodici già arrestato per mafia e animatore di una rete privata molto seguita nelle carceri (la tv è stata accusata di mandare messaggi in codice, i cosiddetti ‘pizzini', ai mafiosi reclusi e tutt’ora non si sa chi la finanzi). Completano il cast stravagante, altri due veri personaggi: il produttore di Mira e un giovane menomato, entrambi malati di mente per due diversi disturbi.

 

Oltre alle commemorazioni antimafia, il film segue l’organizzazione di un evento surreale che accade nelle stesse date: Ciccio ‘decide’ di fare un concerto di piazza allo Zen di Palermo in memoria dell’anniversario delle morti del 2018 e tutto il film ruota sul fatto che Maresco, seguendolo da vicino per i preparativi (e poi durante la disgraziata serata della performance) tenti di forzare l’impresario (già personaggio celebre nei suoi passati lungometraggi) a schierarsi ‘contro la mafia’ con una semplice dichiarazione in favor di camera ‘no alla mafia’.

Oltre all’uso mirabile del bianco/nero quando entra in scena Ciccio (e spesso il b/n è usato solo per Ciccio mentre le altre parti della scena sono a colori), ad un tratto la pellicola ha un brano di animazione sorprendente e in ogni momento si riferisce a fatti veri e apparentemente girati dove accadono, sebbene si abbia più volte il sospetto che la principale storia (l’organizzazione del concerto allo Zen) sia un po’ creata per l’occasione narrativa dallo stesso Maresco.

Poco coerente il finale, dove poco prima della fine dei titoli di coda, viene aggiunto un altro capitolo (ipotizziamo per pressioni di Ciccio su Maresco): Ciccio stesso che si rivolge a Mattarella (presidente della Repubblica, anch’egli palermitano: suo fratello è stato assassinato dalla mafia) per alludere ad una richiesta di grazia a un suo nipote sottoposto al regime del 41bis in un carcere de L’Aquila.

Prodotto tra gli altri da Formenton de il Saggiatore, il film ha ricevuto un notevole aiuto anche da Pietro Marcello ed Avventurosa. 

Avremmo voluto fare un sacco di domande a Maresco ma ne’ lui ne’ Letizia Battaglia si sono presentati alla conferenza stampa del film.

 Voto: 8.5

 

 

I Premi scelgono i film impegnati e politici


Come ogni anno, la serata di premiazione alla #BiennaleCinema2019, #Venezia76 chiude una lunga maratona che ha messo insieme l’industria e semplici appassionati, la stampa di tutto il mondo e ovviamente i tanti curiosi e fan che per giorni e giorni (non importa se piove!) popolano i bordi del red carpet senza muoversi neanche per …sogno dato che vivono perennemente in una realtà di celluloide.
 

Andiamo con ordine (di premiazione): forse il lavoro più duro quest’anno l’hanno fatto i giurati di Orizzonti dato che la qualità della sezione ‘minore’ è stata la più alta di sempre arrischiando addirittura la selezione di film incredibili e sperimentali (oltre che bellissimi) come il basco Zumiriki (scritto, diretto, girato, editato, montato e soprattutto creato e impersonato a partire da un’esperienza di eremitaggio dell’autore Oskar Alegria che firma pure il sound design insolito ed impeccabile).


Miglior film è l’ucraino Atlantis, che è frutto di un’esperienza simile: il regista Valentyn Vasyanovych è anche l’autore, l’attore principale, il montatore, il direttore della fotografia ed il produttore oltre che il sound designer. E il film - che parla di un’improbabile fine della guerra con la Russia (che indisturbata, ricordiamo, ha invaso il Donbass ed ancora uccide sebbene il mondo pare abbia dimenticato) nel 2025 - racconta di una società distrutta dove, in mezzo ai cadaveri (non è qualcosa di figurato, è vero: è la storia di due becchini non-profit) nasce a fatica l’amore. Immagini mozzafiato, idee di fotografia e di editing gigantesche e una storia, semplice per quanto molto efficace, al top!

L’avevo perso, Atlantis, e sono andata a vederlo dopo la premiazione. Sebbene avessi i miei preferiti in questa sezione (tutti premiati, come leggerete tra poco con altri riconoscimenti), concordo con la scelta della giuria.  

Ho avuto la fortuna di vedere il film accanto ad una donna ucraina che parlava perfettamente inglese ed italiano. Ha esordito dicendomi che noi ignoriamo la portata di questo conflitto e nessuno ne parla più; io da parte mia le ho detto che almeno per quanto mi riguarda non è così e cerco di seguire come posso da altra stampa, ma le ho anche detto che oggigiorno sono più le guerre che non fanno notizia che quelle che la fanno (e che le miserie a cui siamo soggetti sono tante). 

Durante il film ha pianto molte volte cercando di essere discreta e non disturbare, soprattutto nella scena d’amore quando sembrava non riuscire ad arrestarsi e stava davvero male. Allora l’ho abbracciata forte. 

Dopo che si è calmata, mi ha ringraziata, mi preso la mano e abbiamo guardato il film insieme così. Il cinema, per parafrasare un billboard pubblicitario che campeggiava al Lido, ha un’enorme responsabilità sociale.

Meno condivisibile (almeno da me) il premio come migliore regia a Blanco En Blanco di Théo Court, mentre necessari i due premi ai migliori attori di Orizzonti, segnatamente vinti dall’ottima Marta Nieto nel film Madre di Rodrigo Sorogoyen e dallo straordinario Sami Bouajila nel film Bik Eneich - Un Fils di Mehdi M. Barsaoui. Entrambi, speriamo, usciranno anche in Italia.

Ottimamente salutato dal numeroso pubblico che assiste alle premiazioni dai maxischermo montati ai piedi del Red Carpet, il premio speciale dato a Verdict, del giovanissimo regista filippino (anche autore e produttore) Raymund Ribay Gutierrez, mentre premiata come migliore sceneggiatura Jessica Palud, con Philippe Lioret, Diastème per Revenir (di cui Palud è anche regista: la storia è liberamente tratta dal romanzo di  Serge Joncour « L’amour sans le faire », Editions Flammarion).

Miglior corto a Orizzonti è andato al pachistano Darling di Saim Sadiq e Venice Short Film Nominationn for the European Film Award è andato al portoghese Dogs Barking at Birds di Leonor Teles.
 

Leone d’oro - per molti scontato, per molti un affronto - è andato a Joker  e il premio speciale della Giuria, come io e tutti speravamo, a La mafia non è più quella di una volta di Franco Maresco di cui vi avevamo entusiasticamente parlato. Il regista siciliano non ha ritirato il premio, così come non l’ha ritirato Roy Andersson (lui per un problema all’anca, Maresco perché non riesce a salire su un palco e molti dicono non stia neanche tanto bene), Leone d’Argento per il meraviglioso OM DET OÄNDLIGA (About Endlessness). 
 

Gli attori premiati coincidono ampiamente con i leak della vigilia: Coppa Volpi a Ariane Ascaride (Gloria Mundi di Robert Guédiguian, co-produzione italiana) e a Luca Marinelli per Martin Eden di Pietro Marcello.
Entrambi gli attori hanno arrischiato un discorso molto politico - come credo estremamente politico sia stato il verdetto di tutte le giurie dando risalto a film importanti ed utili per conoscere fatti e misfatti del nostro tempo.


Ascaride ha detto che lei viene da una famiglia povera di immigrati italiani che per scappare dalla fame sono andati via dal loro paese approdando con tanta fortuna a Marsiglia. Essere portatori di più culture è un bene, un plus pertanto lei, visibilmente commossa e in italiano, dedica questa coppa a tutti quelli che non ce l’hanno fatta e giacciono nel fondo del Mediterraneo.


Marinelli va oltre. 

In un discorso accorato dove ha cercato in ogni momento di vincere la commozione, ha detto (tenendosi stretta la Coppa giocando sul fatto che dopo questo discorso magari potevano portargliela via…) che gli attori hanno un ruolo importante: ‘Devo questo premio anche a Jack London, che ha creato la figura di Martin Eden, un marinaio. E perciò dedico questo premio a coloro che sono in mare a salvare altri esseri umani che fuggono e che ci evitano di fare una figura pessima con il prossimo. Viva l'umanità e viva l’amore’. Questa dedica, casomai gli spettatori non se ne fossero già accorti, rivela il grande messaggio politico che il film porta con sé anche se non lo nomina mai (Pietro Marcello’s style!).

Nonostante la Martel, presidente di Giuria, odiasse il fatto lui fosse presente con un lavoro nuovo, Roman Polanski si aggiudica il Gran Premio della Giuria con J’accuse e Yonfan (protagonista di un accorato discorso sullo stato di Hong-Kong e delle rivolte in occasione della premiazione) è il migliore sceneggiatore per N.7 Cherry Lane (Ji Yuan Tau Qi Hao) che di bello aveva solo la sceneggiatura (e che per i fan dell’animazione è stato un must).

Come avevamo previsto, Toby Wallace di Babyteeth vince il premio Mastroianni come giovane attore emergente. Oltre che ringraziare la sua giovane partner nella pellicola, ci stimola a conoscere meglio i film australiani nel suo emozionantissimo discorso di ricezione del premio. 

Leone del Futuro (premio Venezia Opera Prima) a You Will Die at 20 di Amjad Abu Alala (Sudan, Francia, Egitto, Germania, Norvegia, Qatar).

Io amo seguire la diretta della premiazione in strada e non in sala stampa: non importa se piova o se sia caldo, lì si ha il polso della situazione. Ho quindi registrato un’unica nota stonata, che spesso è stata bisbigliata da vari fan assiepati ai lati del maxischermo: la mancanza di un premio o una menzione al ceco The Painted Bird. Che sfortunatamente, aggiungo io, non vedremo mai in Italia perché un film così non trova posto nella nostra asfittica distribuzione.

Non resta che augurarvi ed augurarci ‘arrivederci’ a #Venezia77, stessa spiaggia stesso mare. Speriamo (scettici come Franco Maresco) in un mondo che ci permetta di affrontare anche altri temi e non solo stermini e sopraffazioni, distruzione del pianeta e razzismo, violenza domestica e sui bambini. 

 

 

 

#BiennaleCinema2019#Venezia76