L'arte necessaria?

Dagli anni 90 un tema ricorrente tra battaglie civili e denuncia di orrori verso il pianeta

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16-12-2022
categorie: Arte,

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L'arte necessaria?

Dagli anni 90 un tema ricorrente tra battaglie civili e denuncia di orrori verso il pianeta

Le cronache degli ultimi mesi sono spesso puntellate dalle gesta di attivisti per il clima che prendono in ostaggio (mai letalmente) opere d’arte per attirare l’attenzione sull’inquinamento ed altri effetti nocivi di questo tipo di progresso che l’umanità si è scellemente scelta.

 

E se fosse invece l’arte a dare una necessaria risposta a salvare il pianeta o se fornisse intelligence alle masse per interrogarsi su quale sia la strada per renderlo un luogo migliore, non solo meno inquinato ma più equo e più inclusivo?

 

Di artisti rivoluzionari sono piene le epoche, anzi: per ogni epoca ci sono stati linguaggi e gesti creativi che hanno rotto gli schemi attirando l’attenzione di entusiasti e detrattori e comunque ottenendo la comprensione di (e l’indignazione verso) certi fenomeni: dall’erosione di suolo, ai disastri naturali man made, fino alle ingiustizie sociali e di genere.

 

Escludendo cinema e teatro - più votati al registro della denuncia per l’ampiezza della platea a cui queste forme creative si rivolgono - oggi prendo in esame l’arte visiva dagli anni 90 in avanti. Molti sono gli artisti che hanno usato (ed usano) linguaggi sovversivi o dirompenti, mi concentro oggi su alcuni che hanno come progetto a lungo termine il pianeta Terra e l’interazione felice dei suoi ospiti.

 

Olafur Eliasson, il primo ad intuire l’importanza del dialogo dell’arte con la scienza e le scienze sociali, è forse l’artista più politico che questi decenni ci hanno donato, sebbene non sia prettamente interessato ab origine all’arte di denuncia per se’.

 

Fabrice Hyber(t) è un altro esempio di artista cross-media, con un’educazione addirittura nel campo della logica e della matematica, che ha lavorato e lavora tutt’ora servendosi di scienza pura. Il suo progetto a lungo termine più noto è iniziato negli anni 90 e finirà con la sua morte: pianta alberi a Vendée, la sua vallata natale (in Francia). Molti artisti dopo di lui si sono votati alla riforestazione soprattutto per permettere la presenza di insetti impollinatori che garantiscono la prosecuzione della vita sulla Terra.

Leone d’Oro alla Biennale di Venezia si occupa di spiegare complessi meccanismi di ricerca scientifici, il corpo umano (ed il pianeta) proprio per sensibilizzare a temi ambientali, spesso complessi, la cui comprensione prima ed accettazione poi sono alla base dello sforzo corale di migliorare la vita di chi lo abita.

Omeopatia, risparmio energetico, giardini partecipati attaccati a monumenti per ‘elevare’ la cura come gesto ‘monumentale’, relazione con le aziende per inventare nuovi progetti ecologici che travalichino i confini dei musei e delle gallerie sono temi fondamentali nel suo lavoro.

 

Altri artisti creano spesso - grazie alla loro formazione che include più di una competenza - ambienti che traducono perfettamente la vita degli esseri non umani sul pianeta. Sentirla, visualizzarla, accostandoci ad essa, è propedeutico a rispettarla.

Prendo ad esempio Céleste Boursier-Mougenot, artista francese che ha anche studi al Conservatorio. E’ stato protagonista ad una recente Biennale di Venezia.

Il suo lavoro al padiglione francese è stato acquistato dal rivoluzionario collezionista australiano, David Walsh, di cui vi avevo già parlato, che fa della sua attività una bandiera precisa per il recupero della terra e del paesaggio, anche umano, della sua Tasmania.

Boursier-Mougenot ha esposto rêvolutions perché i visitatori avessero un macroscopico ed esagerato punto di contatto con un linguaggio altrimenti invisibile, quello delle piante: alberi (veri) si muovevano nello spazio con un importante messaggio audio a fare da ‘gigantografia’ auditiva ai loro segni e alle loro ‘parole’ perché non è sempre facile conoscere ed immaginare un dialogo interspecies. Ovviamente l’artista è interessato all’aspetto percettivo di questi contesti, ma non sfugge che scelga sempre di ‘creare’ aspetti della nostra vita che ci invitano non solo ad acuire i sensi ma anche la nostra coscienza civile.

Moltissimi artisti si dedicano al paesaggio ‘sociale’ delle diseguaglianze a lungo termine. L’artista australiano Marco Fusinato utilizza tutti i linguaggi e codici che predilige (tra cui la musica) per creare installazioni documentative e creative che ricordano o raccontano di gesta di gruppi o persone che difendono un interesse collettivo urgente ed indifferibile.

Ha finanziato un archivio del lavoro e del movimento operaio di stanza a Milano (Archivio Primo Moroni, ora in pericolo) con un gigantesco fundraising alla Biennale di Venezia. E nella stessa mostra di recente ha creato un monumento ai disastri del pianeta, utilizzando un sofisticato sistema di randomizzazione di immagini e suonando dal vivo, ininterrottamente per 200 giorni, brani noise improvvisati. Con The Infinitives invece ha raccolto le immagini di protesta in qualsiasi angolo di pianeta - precisamente quelle in cui il manifestante fosse nell’atto di tirare una pietra.

 

Se Theaster Gates ha forse elevato all’ennesima potenza un racconto di comunità che ha pretese di universalità, è come al solito l’artista (e premio oscar come cineasta) Steve McQueen che centra l’obiettivo di mettere al centro l’urgenza del prendersi cura di chi per definizione è indifeso nella storia universale e nelle storie particolari. 

Ha iniziato riscrivendo i canoni della storia della schiavitù, dei minatori, di altre comunità di losers nel suo paese, il Regno Unito, per poi ritornarvi a oltre 20 anni dal ricevimento del Turner Prize e creare (con la Tate, Artangel e la BBC Londra) un progetto pluriennale che va oltre la ricognizione sociale ed il racconto emotivo:  ritratti fotografici a scolaresche inglesi (nell’anno terzo della loro scuola) per raccontare il ‘capitale del futuro’ a rischio altissimo di dispersione. Non è stata solo una mostra indoor ed un lavoro dedicato agli studenti per tre anni con tutte le scuole, ma ha campeggiato anche sui 600 grandi impianti pubblicitari nelle strade del paese.

 

La fotografia fine art - il mezzo fotografico usato come opera e non l’attività di reportage, di documentazione o denuncia - regala spesso incontri inaspettati a chi come me ricerca da tempo sull’arte politica.

La fotografa Anais Tondeur fonda la sua pratica sulla scienza e sulla collaborazione con tecnici e scienziati, il suo progetto a lungo termine è dare voce agli elementi naturali del nostro pianeta e portarli all’emergenza agli occhi degli umani, specialmente dove sono gli umani ad aver provocato disastri. 

In Tchernobil Herbarium ha collaborato con un filosofo del linguaggio (Michael Marder) ed un genetista (Martin Hajduch) per raccontare cosa è successo alle specie vegetali nella Exclusion Zone della nota centrale ucraina.

In un altro progetto (Un parfum, la nuit), apparentemente più poetico, ha lavorato con un ‘naso’, una profumiera, per associare 14 odori ad altrettante immagini (sogni) per incentivare i visitatori a comprendere il legame tra i nostri sensi, il nostro modo di comprendere e l’influenza lunare sullo stesso piano di quello di altre specie viventi, del pari legate all’astro e al sole per replicare la loro vita sul pianeta.

In una recente conferenza ospitata all’Institut Grenoble di Napoli su iniziativa di Spot Gallery che ospitava una sua personale, l’artista ad una mia domanda ha dichiarato: ‘Attaccare la terra finisce per spostare il focus dalla guerra all’uomo a quella contro l’ambiente che fa danni collaterali infiniti. La geopolitica è una disciplina a cui mi sento molto legata, nel mio caso consegno al visitatore un’esperienza estetica che porta sempre ad una questione intellettuale: oggi gli artisti che lavorano nel mio solco e si occupano di temi così importanti e politici sono diversi da Leonardo, che aveva tanti saperi ed esperienze riguardo alla sua contemporaneità. Oggi la partizione dei saperi ci impedisce di avere uno sguardo di insieme necessario a fare la differenza nel nostro messaggio ai pubblici. Per questo è molto importante collaborare con altri esperti di altre discipline. Gli artisti a cui guardo maggiormente per come lavorano in nome del pianeta sono Tomas Saraceno - penso al suo lavoro sul linguaggio dei ragni ma non solo - ed il compositore e violinista svedese Peter Schuback, che traduce il vero significato dell’ecologia in termini auditivi.’