Your Black Horizon, Olafur Eliasson alla Biennale d'arte di Venezia, 2005

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Your Black Horizon, Olafur Eliasson alla Biennale d'arte di Venezia, 2005

Nella 51a Biennale, Olafur Eliasson, insieme a Tino Segal, Pipillotti Rist e John Bock, è stato l’artista che ha interpretato meglio l’impegno e il valore di un invito a quello che resta l’appuntamento principale del calendario delle grandi esibizioni d’Arte.


L’artista danese, che risiede dal 1993 a Berlino perché – dice – “a Danimarca ai tempi in cui l’ho lasciata era come è oggi l’Italia: priva di strutture per i giovani artisti: dalle buone scuole ai musei” è stato invitato da Rosa Martinez insieme ad altri 40 artisti nella collettiva “Sempre un po’ più lontano”, ubicata all’Arsenale. Ai tempi dell’invito, Eliasson aveva sottoposto alla curatrice spagnola il progetto di Your black horizon, stimando di dover trovare il luogo per realizzarlo, in quanto l’Arsenale non era in grado di ospitarlo.

Se cercate Your black horizon nella tentacolare struttura della vecchia darsena veneziana, non lo troverete. L’opera di Eliasson si trova all’isola di San Lazzaro degli Armeni (vaporetto n.ro 20 da San Zaccaria), pur facendo parte di “Sempre un po’ più Lontano”.

Difficile trovarla, perché il luogo non è segnalato nella documentazione della Biennale distribuita agli infopoint. Si riesce a rintracciare la sua “ubicazione” grazie ai biglietti distribuiti dalla fondazione che ha finanziato il progetto! Un vero peccato per l’opera, tra le migliori. Il luogo che Eliasson ha scelto, va detto, è forse l’isola più suggestiva della Laguna. Insomma, un regalo dentro il regalo, per gli spettatori che riescono (speriamo quanti più possibili) a trovarla senza segnalazioni.


Your black horizon è un’opera commissionata da una fondazione d’arte austriaca, la TB A 21, (curata da Francesca Von Habsburgh e Daniela Zyman) che ha la missione – a dir poco meravigliosa – di distribuire bellezza negli angoli più remoti del pianeta con la progettazione e realizzazione di padiglioni d’arte individuali ed ecologici (per solo show) in serie limitata che ospitino opere e che contribuiscano a modificare la percezione di cosa sia un luogo di esibizione, mettendo in comune per ogni progetto un grande artista e un grande architetto. Insomma un guscio e la sua perla, tutt’uno con l’ambiente che lo ospita (in questo caso l’isola degli Armeni). L’artista lavora in stretto contatto con l’autore del padiglione, un architetto, che lavora sul brief dell’artista che, mentre realizza l’opera, segue costantemente la produzione della sua “scatola”. Se vi sembra già incredibile così, lo sarà ancora di più se si pensa quale tipo di opera ha realizzato Eliasson e riproposto in forma nuova alla 51a Biennale.



Your black horizon è un raggio di luce che – ad altezza occhi, quindi a livello di orizzonte – percorre un cubo di 400 metri quadri, una black box fatta di travi di legno e rivestimento ondulato, esternamente color marrone scuro. Affascinato dall’elemento naturale come generatore delle diverse attitudini umane ed essendosi costantemente assunto la responsabilità di raccontarle (le diverse attitudini umane) a quanta più audience possibile, l’artista ha campionato la luce della laguna veneziana dalle 4 del mattino alle 10 della sera, per misurarne le intensità e i livelli di bianco, porpora, azzurro. Ha trasferito i dati in un meccanismo di illuminazione fatto di economicissimi led, compattando la sequenza di alba-meriggio-tramonto-notte ed accelerando di qualche minuto le singole variazioni del tempo Ed ha quindi messo in mostra l’intero ciclo di luce veneziano nella scatola che lo contiene, disegnata da un noto architetto britannico, David Adjaye. Arrivando all’isola, il padiglione è assolutamente mimetizzato dai radi alberi e la sua forma (soprattutto il volume) si presta per essere affatto invasivo, nonostante sia enorme.

 

Tutte le forti sensazioni che Your black horizon regala all’audience sono studiate, passo dopo passo, dalla scoperta del padiglione fino all’uscita dall’opera. Aggiungendo che, proprio per il luogo in cui si trova (un luogo di meditazione, pregno di una storia importante per la laguna ed incredibilmente bello), lo spettatore, nell’affrontare il viaggio di andata e ritorno, vive un significativo surplus di bellezza, armonia, meraviglia. Non è poco nel mondo in cui viviamo e lo stato di grazia che Your black horizon dona è superiore a qualsiasi visita “tradizionale” ad una mostra. Sì, perché in questo caso la visita è una scoperta, un viaggio e poi una permanenza ed un’uscita in/da una struttura ad hoc: cambia il concetto di fruizione tradizionale grazie alla costituzione del padiglione, quindi alla scelta del luogo, al brief, a tutto quel che viene prima di un progetto che sia arte e architettura insieme. Una pedana, aperta nel fianco della struttura, percorsa da pareti listellate che inframmezzano il percorso con dei vuoti che sottraggono a poco a poco la luce per abituare gradatamente al buio introduce ad una grande stanza scura, vuota e senza colonne. 41 metri x 41.

La stanza è totalmente devota ad un raggio di luce, sottile e bianco, che muta intensità, largo meno di un centimetro. Ottenuto da una fenditura orizzontale delle pareti di legno (che quindi si interrompono per tutta la loro enorme metratura in due grandi blocchi: sopra e sotto il raggio di luce), il raggio è prodotto da led che retroilluminano la fenditura. Occorre (consiglio) avvicinarsi al raggio per comprendere la precisione costruttiva di quest’opera: tanto potente quanto assolutamente poco afflitta da manie di grande design. Abituato all’oscurità, all’occhio (ed al corpo, grazie al volume senza barriere costruito da Adjaye) resta un’esperienza rarissima: godersi la luce, soltanto la luce e le sue sottili variazioni, isolate dall’artista che le celebra, narrando con amore e con oggettività assoluta il virtuosismo della luce mediterranea, fatta di rossi e ossidi forti, di un picco acceso e algido di blu, che vira al porpora intenso che, a sua volta, lascia il posto al bianco, che – man mano che il sole lievita – gonfia il suo carattere verso il giallo. Il giallo del meriggio diventa d’un tratto – assoluto trionfo degli ori italici – ancora una volta arancio, e poi rapido, il guizzo del tramonto, dona ancora il rosso violento, comune e vicino a quello dell’alba. Si torna, in un baleno, alla notte. Usciti dal padiglione, gli occhi cercheranno di abituarsi alla luce lagunare, quella vera, estasiati dal compendio, dalla favola che è stata loro donata.


Protagonista di un seminario d’arte alla Domus Academy nei giorni precedenti l’inaugurazione della Biennale, l’artista ha illustrato la storia e il progetto dell’opera e discusso con Obrist, Yona Friedman e Stefano Boeri dell’uso dei modelli nel suo lavoro artistico – e del suo incredibile museo dei prototipi che occupa un’ala del suo studio.