London Design Festival 2019: a che punto è il bio-design

fino al 22 settembre (e spesso oltre) in musei, gallerie, negozi e piazze

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19-09-2019
categorie: Design, Non profit, Window Shopping,

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London Design Festival 2019: a che punto è il bio-design

fino al 22 settembre (e spesso oltre) in musei, gallerie, negozi e piazze

Fino al 22 settembre (per molte mostre in gallerie e musei anche oltre) il London Design Festival riempie spazi istituzionali ed interi quartieri (Bankside, Brompton, Chelsea, Clerkenwell, King’s Cross, Marleybone, Mayfair, Pimlico, Shoreditch, Victoria Connections, West Kensington, Paddington Central) affiancandosi a diverse fiere di trade (quattro le principali: 100% Design, Designjuntion, Focus/19, London Design Fair).

Curiosamente, la kermesse londinese del design si situa tra la settimana della moda (London Fashion Week) e quella dell’arte (Frieze Art Week) e poco, anzi quasi nulla, questi tre mondi hanno in comune: sia pubblico che attori non si travasano e non si intersecano a dispetto della politica applicata dal Comune di Londra che da Johnson (sindaco, non PM) in poi ha coniato l’autunno creativo londinese, una fitta serie di incentivi e di intuizioni pratiche di cui vi abbiamo già parlato nelle passate edizioni (Creative London) che doveva durate otto anni e che invece va avanti.

 

Diciamolo subito: come sempre il festival mette insieme proposte incredibilmente avanzate - spesso coinvolgendo centri di ricerca ed accademie di settore e non - a chiarissime e spesso non piacevoli derive commerciali. 

Queste ultime, almeno da quattro edizioni (da quando il main sponsor è il più grande sviluppatore immobiliare inglese, British Land) letteralmente colonizzano le line up, i quartieri si ‘pianificano’ a partire da dove questo player ha da presentare i suoi nuovi spazi per uffici e retail, come la recente risistemazione a Broadgate (dietro Liverpool Street, quindi nel tradizionale Shoreditch Triangle) ammantata da un’installazione di Cocksedge costretta in un volume affatto convincente oppure a Paddington. Per fare un paragone con Milano, sembra di navigare quartieri dove in mostra’ ci sono ormai per lo più salamelle e negozi di borsette o spazi da affittare: parlo ovviamente di Tortona e Ventura (curiosamente iniziate dalle stesse persone).

 

 

Altra zona che delude per la consistenza delle proposte (una sequenza di spazi commerciali) è il neo-risistemato King’s Cross ed il suo Coal Drop: dove una volta il Regent’s Canal faceva paura a tutti offrendo drug dealing h24 a pochi passi dalla fermata di St. Pancras ora vi è una grande area pedonale e commerciale (quest’ultima su due livelli) dove ha trovato posto il nuovo outpost della Medaglia d’Oro di quest’anno, il famoso designer Tom Dixon che vi ha aperto anche un ristorante. Qui si trova anche la nuova sede (il cui affitto pare costosissimo) della Central Saint Martins, che ospita una delle mostre migliori di cui vi parliamo dopo e che come ogni design academy molto ambita (vedi Domus Academy in Italia) è sempre più popolata da studenti asiatici affluent che arrivano a scuola griffati proprio Louis Vuitton dalla testa ai piedi (la Maison sponsorizza una delle classi più avanzate sui materiali eco)

 

Il V&A, centro nevralgico come ogni anno del festival, ospita alcune mostre create per l’LDF e la più valida è Legacy (ospitata al piano terra) dove dieci tra i più noti designer inglesi hanno creato una commissione speciale rispondendo ad un brief ed una necessità d’arredo di altrettanti, e famosi, direttori di accademie e gallerie inglesi. 

I pezzi saranno in seguito spostati in queste istituzioni (negli uffici dei direttori o in spazi comuni). Uno solo è destinato ad uno spazio outdoor ed è una straordinaria sedia per guardare il tramonto (Nest).

 

La mostra, curata e assai voluta dal direttore del LDF (Sir John Sorrell) usa solo quercia rossa americana: è una delle essenze lignee in maggiore sovrapproduzione al mondo. Gli arredi sono stati tutti fabbricati dal mobilificio Benchmark in Berkshire.

Max Lamb ha risposto al desiderio della direttrice della Tate, Maria Balshaw, di avere una transizione ordinata tra il lavoro diurno e gli impegni serali. Max (una sua straordinaria nuova serie di arredi laccati ispirati alla cultura Urushi è alla galleria Fumi a Mayfair fino al 26 ottobre) ha quindi creato Valet una stazione di dressing che oltre allo specchio è provvista di mensole e appendiabiti. Ed è curiosamente genderless, prevedendone quindi la gradevolezza anche per il futuro direttore dell’istituzione che potrebbe essere anche un uomo!

Raw Edges ha creato Wooden Hinge un treppiedi da lettura stand alone per Iwona Blazwick, direttrice della Whitechapel Gallery al fine di sottolineare il suo pensiero: i libri sono l’oggetto più politico che esista per il loro infinito potere di disseminare idee.

Ancora sul rapporto cultura-disseminazione, il Writer’s Collection di Sebastian Cox è una stazione di scrittura che incorpora un tavolo, una sedia, una riserva di carta, un portapenne creati per Amanda Neville (British Film Institute) per sottolineare come l’ambiente di lavoro della direttrice fosse tutt’uno con le qualità dello storytelling.

Martino Gamper (protagonista anche di un’installazione assai poco significativa nello spazio pubblico, Disco Carbonara, proprio in una delle zone a più alto tasso di commercializzazione della Design Week, King’s Cross) ha risposto al brief della direttrice dell’English National Ballet (Tamara Rojo) che voleva un contatto costante con la sua musica. Ha costruito una libreria creata a partire da un sistema di incasso senza viti delle mensole (inventato proprio per questa mostra) che desse la possibilità alla estesa collezione dei vinili della sua ‘cliente’ non solo di trovar posto ma anche essere navigata agevolmente grazie al fatto di facilitare la vista delle copertine.

 

Sempre al V&A, nelle Gallerie Europee, una scuola di design pop-up si insedia nella struttura lignea che appartiene proprio a quelle sale. E’ ideata da Ella Britton, design thinker che ha una residenza annuale al centro ricerca del museo inglese. 

Collective Design School è un’accademia ante-litteram se si considera il sistema d’istruzione britannico non propriamente democratico. 

Insegna design per tutti, è fatta da tutti ed è composta da una serie di workshop guidati e da un’altrettanto stimolante serie di appuntamenti condotti da ragazzi e bambini. A me è capitato di assistere a una classe in cui due giovanissime avevano costruito una macchina creativa il cui fine era ospitare quattro ‘studenti’ adulti  per volta: sulla base di domande semplici ma difficilissime come solo i bambini sanno produrre dovevano cimentarsi a ricostruire quello di creativo la loro giornata avesse espresso e collegarlo alla creatività della loro infanzia.

 

E’ il Global Design Forum al V&A ad essere ancora la piattaforma più dinamica ed utile del festival. Organizzato in sessioni brevi (mai più di un’ora) ha affrontato e affronta temi cruciali per l’industria come ad esempio il bio-design, applicazioni di ingegneria biotecnologica e ricerca sul DNA per creare plastiche, rivestimenti, packaging, arredi, eco-fashion dalle più svariate fonti vegetali e da forme di vita coeve a quella umana (batteri, spore ed altri microorganismi). Su questo proposito e concomitante al LDF non perdete la seconda edizione di BioDesign Here and Now ad Open Cell (fino al 21 settembre). E’ un’indagine sulle più avanzate ricerche in campo di bio-fabricated design (ed oltre) ospitato in un incubatore aperto tutto l’anno e devoto all ricerca tecnologica e alla scienza dei materiali allo Sheperd Bush Market (un’isola felice nella Londra davvero creativa: 24 container di studi e start-up nel settore capitanati da Helene Steiner).

 

Non c’entra con il LDF ma al V&A un noto retailer inglese di cibo ha sponsorizzato una mostra davvero imperdibile sul cibo: come lo produciamo, come la filiera deve diventare sostenibile anche e soprattutto nelle condizioni di lavoro, di commercializzazione e di packaging. E come possiamo noi fare la differenza, organizzando esperienze di comunità che non solo portino ad una razionalizzazione della risorsa ma a riscoprire e valorizzare essenze e frutti spontanei che ci circondano. 

FOOD: Bigger than Plate (fino al 20 ottobre) è una miniera d’oro perché fornisce un’indagine molto vasta - e assai sviluppata in ogni partizione della filiera cibo - sulle pratiche sostenibili nella ricerca dei materiali: dalle etichette e porta-bottiglie fatti con i residui della vendemmia, alla molto nota coffee cup ottenuta dai fondi di caffè (protagonisti di molti altri ottimi progetti sia di concimazione a portata di tutti che di materiale costruttivo per arredi e complementi), ai salvadanai fatti con i funghi e i resti di Mate a filati e oggetti in filamenti di cocco (tutti completamente biodegradabili). Fino a materiali non così amabili come la carta igienica usata: una designer olandese la ricicla perché le fogne nel suo paese la separano dal resto e diventa materiale costruttivo per piatti e bicchieri grazie ad una sua intuizione tecnica. Anche il sangue di mucca trova una nuova ed ecologica vita ad opera di altri autori. La caseina ed altre proteine o spore sono protagoniste di altri esperimenti molto stabili sia nel campo della mimica della plastica sia nella creazione di pannelli fonoassorbenti per l’edilizia mentre elementi di frutti come l’ananas hanno fornito una delle alternative eco alla pelle e alla sua industria così nociva soprattutto in paesi del terzo mondo dove i reflui non vengono trattati. 

 

 

Per gli appassionati di sperimentazioni in chiave ecologica, pochi accenni a Brompton e a Shoreditch

 

Nel primo, molto posh, a pochi passi dalla V&A dove nei negozi italiani si sussurra a denti stretti grande preoccupazione per Brexit mentre si ostenta il solito sorriso imperturbabile, non perdete Nature/Nurture e Biotopia. Si tratta di progetti nello spazio urbano pensati in materiale biodegradabile e attrattivo per gl insetti: da una sedia per api di Marlène Huissod (decimate se non scomparse negli spazi urbani) ai pezzi per piccoli animali dell’Interaction Research Studio del Goldsmith che sono provvisti di telecamera notturna DIY per visualizzare il loro comportamento (i film della fauna urbana sono visibili all’ottimo gastropub The Hour Glass o dai vostri schermi). 

 

E in questa sezione dell’LDF che avviene anche la prima installazione pubblica di The Fleet (già presentata al V&A nelle scorse edizioni), la splendida fontana riflettente in bronzo di Michael Anastassiades. Per combattere l’utilizzo di bottiglie di plastica usa e getta. 

 

 

Se non siete ancora passati da Mint dove negli ultimi 20 anni mi è capitato di scoprire tutti i designer i cui nomi hanno poi riempito riviste, fiere e negozi negli anni successivi, non perdete alcuni pezzi di giovani designer che la gallerista Lina Kanafani ha selezionato quest’anno: i quadri ossidati di Oliver Harding (dalle 700 alle 3600 sterline) che ritraggono paesaggi visti in prospettiva zenitale come da satellite; uno specchio di una giovanissima studente della RCA (Mirror Me di Wutain Zhang) o una curiosa sedia-lampada dell’olandese Niek van Der Heyden (7000 sterline). 

 

A Shoreditch (dove è praticamente quasi inutile percorrere tutti i chilometri del distretto, tranne forse che per la London Design Fair che apre oggi), non perdete NID una mostra di design sostenibile a Charlotte Road firmata solo da creativi estoni e finlandesi che tratta il lifestyle da ogni esigenza: dai profumi, ai tessuti eco, a piccoli arredi, a una collezione di abiti no gender fino a tableware di ottima fattura e cuscini con essenze profumate. 

 

 

La Central Saint Martins presenta Designing in Turbulent Times (fino al 27 ottobre nella nuova sede di Granary Square a King’s Cross). LVMH sponsorizza la classe di materiali da due anni all’interno di Maison/0, il loro progetto di moda sostenibile che si impegna poi anche nella mostra che raggruppa il meglio delle proposte degli studenti. 

Organizzata in sei temi, non è solo una mostra ma una piattaforma di dibattiti ed eventi. Dai tessuti ottenuti dal riciclo dei nastri delle cassette, ad elementi d’arredo non riuscitissimi ma nati dalle bici abbandonate, alla rivisitazione di materiali per l’architettura e l’isolamento con sostanze sostenibili, abbondanti in natura e biodegradabili, fino alla geniale idea di realizzare il packaging dei saponi e detersivi con ….il sapone stesso di modo da azzerare la produzione di contenitori (Soapack è un prototipo di Mi Zhou).

 

Gli studenti in mostra si cimentano anche in progetti di tipo più ambizioso. E’ il caso di Chekii Harling che ha progettato TRASH, un magazine di moda e cultura integralmente biodegradabile stampato su e con materiali edibili. Ed è tra i vincitori di 5000 sterline (Green Trail Award) messe a disposizione dallo sponsor.

 

Non ha vinto ma a me è sembrato il progetto più geniale non solo dal punto di vista del design puro ma dal punto di vista dell’architettura delle città e della creazione di valore. Si tratta di Peckham’s Convenience di Mark Freeman (studente del master in architettura). Si tratta di toilette pubbliche dove è minimizzato l’uso di acqua e dove urina e feci vengono usate per produrre fertilizzanti oltre che non intasare il già devastato sistema fognario inglese. Le toilette hanno anche altri interessanti applicativi come la ventilazione e illuminazione verticale per minimizzare l’uso di elettricità nel loro utilizzo (elettricità comunque prodotta da turbine a vento e pannelli solari installati sul tetto dove trova posto anche la più spaziosa unità di compostaggio delle feci). 

Ovviamente sono alimentate da acqua piovana e lo studente ha analizzato la caduta media nella zona di ubicazione del suo prototipo per preparare già la ratio di miscelazione dell’urina ricavata dalle deiezioni degli utilizzatori al fine di rendere lo scarto un concime pronto all’uso. Attualmente le toilette pubbliche sono pulite ed amministrate da una nota agenzia di pubblicità che ha ottime revenue (e che per questo sponsorizza altri servizi similari oppure il bike sharing nella stragrande maggioranza delle città del mondo). La toilette di Freeman si auto-pulisce e provvede anche spazi pubblicitari nella sua ridotta facciata in modo da far incassare direttamente questi margini ai costruttori sostenibili che avranno il coraggio di proporla nelle nostre città. Non crediamo JCDecaux sarà così intelligente ad impiantarle…

 

Le Convenience di Freeman mi hanno ricordato un progetto rivoluzionario inglese degli anni 70 che è anche citato nella mostra FOOD: l’eco house di Graham Caine (un membro di un gruppo anarchico ecologico chiamato Street Farmer), veramente realizzata ‘off-the grid’ in tutti i sensi (dall’elettricità e dalle fogne) e dove la toilette era addirittura disegnata da Caine in modo da incoraggiare posture anatomiche tali da far defecare completamente (le feci erano oro nel suo sistema di produzione di energia, concime e gas che manteneva la casa attiva). Eco house durò tre anni nel sud di Londra ma poi fu smantellata perché le autorità gli negarono i permessi di abitabilità.

 

Tornando ad oggi, la Central Saint Martins è la prima delle sei scuole d’eccellenza nel campo delle arti alla University of London ad avviare un master in Bio Design (parte questo mese) ed ha già quello in Material Futures che ha attirato l’attenzione di LVMH muovendola a scegliere di fare della scuola il suo partner per la comunicazione in ambito formazione. Tristemente, come faceva notare Suzanne Lee di Biofabricate in un talk del Global Design Forum, è molto difficile trovare designer che hanno la formazione giusta per affrontare le urgenti sfide del mondo attuale (lei ha trovato i suoi collaboratori spesso alla Rhode School di New York).

 

Due le mostre di design da collezione da non perdere entrambe a Mayfair (e dove sennò).

David Gill Gallery presenta una personale di quadri ad inchiostro, chandelier in vetro borosillicato e una rivisitazione argutissima di un must-have come il daybed o, meglio nota, chaise longue. Il giovane scultore Sebastian Brajkovic di stanza in Olanda e noto per le sue sedie/sculture che riescono a incapsulare il senso di rotazione pur non essendo cinetiche, presenta una decina di daybed (in edizione limitata di 8 al netto di prove d’artista) caratterizzati da fusioni in bronzo non solo strutturali ma anche decorative e tappezzati da stoffe ricercate che giocano, anzi surfano, tra epoche e sfidano la gravità nelle loro torsioni ma ancora offrono una seduta abbondante e soprattutto sono in grado di ridiscutere in maniera intelligente uno degli arredi più tradizionali - e forse non a caso immutati nel corso dei secoli.

 

Il fashion designer Rick Owens qualche edizione fa di Frieze collaborava con Salon 94 che fu la prima galleria ad intuire la potenzialità dei suoi arredi. 

Stavolta lavora con Loic le Gaillard e Julien Lombrail di Carpenters Workshop (tornando per un attimo ai daybed, una sua versione extra large è anche a Venezia, nella mostra che la galleria franco-inglese-londinese e ora anche americana propone a Ca D’Oro dal sontuoso titolo Dysfunctional fino al 24 novembre in concomitanza con la Biennale d’Arte). 

Alla galleria di Mayfair a pochi metri da David Gill Gallery, l’incredibile Owens stavolta si è inventato Glade (fino al 25 ottobre). 

Si tratta di una riproduzione in varie scale del letto del designer, anche in dimensioni extralarge. E’ una sorta di capanno-divano-letto provvisto di tre pareti e una specie di soffitto, un potente sound system inbound, interamente tappezzato di coperte militari marrone-nero che vengono dall’esercito francese. 

Provvisto di luce, caricatore di device e internet, ogni Glade - oltre a quelli visti in galleria - può essere ordinato in diverse finiture inclusa quella di cemento, che Owens ama tanto. Qui e lì sgabelli di alluminio a forma di maschera e corone azteche che anticipano i temi della prossima sfilata. Tutti gli arredi di Owens sono prodotti dalla moglie e musa Michele Lamy protagonista delle migliori notti di Frieze di qualche anno fa con la sua Bargenale. Loro sì che si travasano equamente tra moda, design, arte (e ora anche cinema).

 

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