Una città, Venezia, vera protagonista della formazione di mecenati

Allestimenti sofisticati e sognanti per due grandi mostre

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10-02-2014
categorie: Arte,

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Una città, Venezia, vera protagonista della formazione di mecenati

Allestimenti sofisticati e sognanti per due grandi mostre

Oltre che per epoche erano diversi per ambizioni, tempi di creazione ed obiettivi ma oggi sembrano tutti accomunati da una inesauribile passione per il nuovo e per la pittura. Dallo scorso fine settimana e fino a primavera  due grandi mostre riflettono – in tempi e scansioni differenti – l’etica del collezionare attraverso i lasciti di due figure imprescindibili della storia dell’arte moderna: Peggy Guggenheim e Giuseppe Panza di Biumo (ed altre due associate alla prima).

La mecenate americana viene nuovamente raccontata in Temi e Variazioni, L’Impero della Luce negli spazi della sua mansion veneziana, Palazzo Venier a Dorsoduro, il museo che porta il suo nome (Peggy Guggenheim Collection). Curata da Luca Massimo Barbero ed organizzata in capitoli, la mostra solo in un addendum finale svela il perché del titolo (Temi e Variazioni): la fortunata serie è nata per rileggere la sterminata collezione americana avvicinandola ad altre o ad opere che provengono da galleria private; altre precedenti edizioni tematiche si sono tenute nel 2002, 2009, 2011.
Il titolo di questa mostra è preso in prestito da un’opera dello scultore Fausto Melotti che chiude l’esposizione con una sala (straordinaria) a lui dedicata in cui ammirare 20 sculture immerse nel blu. Dedicato alla luce, non è l’ultimo capitolo della serie, spiega il curatore, ma ci saranno altri temi ed altre variazioni; storici pezzi della collezione saranno ancora messi a confronto con altri prestiti (soprattutto dalla collezione Schulhof, acquisita dalla Guggenheim l’anno scorso) e con opere d’arte contemporanea dalle più importanti gallerie (visto, tra gli altri, un denso Uklański dealer Massimo De Carlo ed una coppia di fotografie straordinarie, Bay of Sagami del 1997, di Hiroshi Sugimoto dealer Kaufmann/Repetto: il curatore ha annunciato presto un suo progetto con l’artista, forse a Venezia) e da un’altra collezione, di stanza a New York, quella di Sthepen Robert e Pilar Crespi (lui è un banchiere e diplomatico/accademico statunitense, lei una ex pr che ha lavorato a lungo per la moda italiana: adesso si occupano di filantropia anche grazie alla loro Source of Hope Foundation).

In mostra 54 opere in otto sale fino al prossimo 14 aprile. La prima è dedicata alla figura femminile, dove un lavoro di grande formato di Kiki Smith si confronta ad una delle opere meno viste della Collezione americana che il curatore sceglie per questa mostra, un Degas del 1889 (Jeune fille étendue et regardant un album). Si prosegue via via per partizioni, tutte in penombra e nel buio, dove il tema della luce viene analizzato con “pretesti” narrativi usati dal curatore per creare gruppi, sezioni monotematiche: gli occhi, il colore, oscurità e percezione, inconscio e natura.

Coppie di lavori molto diversi per epoca e tecniche (ad esempio una foto di Basilico di un ponte romano e un dipinto di Matisse della collezione Robert/Crespi) dialogano tra loro; la grande fotografia contemporanea (tra cui Struth, Ruff, Bechis) si specchia in lavori espressionisti o concettuali di pittura e scultura o disegno (da Kapoor a De Kooning, a Pollock, a Richter, fino ad un curioso Kelly della stessa serie che alterna bianco e nero che ritroveremo pure a Ca’ Pesaro, ed ancora Twombly, Rita Kernn-Larsen appena acquisita dal The Guggenheim Circle o sette tra disegni ad incisione ed acqueforti di Marcel Jean, parte di una cartella di 36 recentemente entrati a far parte della collezione Guggenheim e mostrati per la prima volta). E’ chiaro che un recurring visitor come me cerca i suoi lavori preferiti, le ragioni per cui continua a passare i pochi pomeriggi liberi davanti a poco più di un lavoro per volta. Il curatore, che gioca a nascondino con le manie dei visitatori di questo tipo, le abbiglia in questo caso in una sola sala (che contiene anche lavori ultra-pop il cui accostamento non digerisco fino in fondo, tranne che per quello quasi esoterico di Joseph Cornell, Setting for a Fairy Tale, 1942). Parlo dello storico ed omonimo grande dipinto di Magritte che dà anche il sottotitolo alla mostra, L’Impero della Luce (1953-54) e che fu acquisito da Peggy direttamente alla sua prima esposizione (alla Biennale) e di un grande Judd del 1976, in alluminio e giallo. Oltre a laboratori, lezioni, visite guidate che segneranno i giorni di mostra, sono molti anche gli sconti per visitarla: gratis per gli aderenti al club Amici di Peggy, quasi gratis per i giovani e per le famiglie iscritti al Circuito Giovani a Teatro e Non Solo (valido anche per la mostra di Salgado)

Panza di Biumo (mancato da poco) cercò di far restare in Italia il suo patrimonio inestimabile fatto anche di pittura americana (in particolare di coloro che esordivano negli anni 50) ma nessuna delle istituzioni interpellate aderì (tra di esse la Regione Piemonte). Allora, mentre una grande parte resta nella villa di famiglia intornoVarese, una altra grande porzione prende il via per gli States e si tratta proprio di un nucleo di pittura americana che il Conte italiano collezionò per primo, prima ancora degli americani stessi. Ora, grazie a prestiti del Guggenheim e del MOCA (Los Angeles), l’ultimo piano del rinnovato Ca’ Pesaro ospita Dialoghi Americani: 40 lavori di 27 artisti che hanno fatto la storia dell’arte da tutte e due le sponde dell’oceano (in mostra fino al 4 maggio). Venezia ed il suo Canal Grando scorrono fuori: dentro tre Claes Oldenburg (che avranno reso orfani per un po’ altrettanti visitatori ricorrenti del MOCA) sono posizionati uno accanto all’altro: il mio preferito, Blue and Pink Panties (1961), è a sinistra di Chocolate in a Box (1961), incastonato in un portale di pietra, l’altro è Pentacostal Cross.

Se il Rothko della collezione Robert/Crespi a Palazzo Venier è del periodo finale della vita dell’artista (virato su tragici e cupi, quanto mai meravigliosi, lividi toni melenzana) quello della collezione Panza di Biumo mostrato qui a Venezia è del 1957 e quindi ancora vitale e dionisiaco, Red and Brown. Dice di lui Panza (e non potrebbe esserci una definizione migliore): “Mi affascinava il misticismo dei suoi colori. Non era un artista che sapeva scegliere solo quelli che stavano bene assieme, era molto di più, era la visione di un altro mondo, attraverso un mezzo che ha una relazione istintiva con le nostre emozioni, con il nostro modo di essere. Vedevo nei suoi quadri i tramonti nelle strade di Manhattan (…)”.
Rosa Giovanna Magnifico, la vedova Panza di Biumo che era presente all’inaugurazione insieme alla figlia Giuseppina Panza Dominioni, ha raccontato tanti loro incontri avvenuti nei decenni con i grandi artisti, di come essi fossero felici che il collezionista italiano, sempre schivo nelle occasioni ufficiali, andasse con amore a curiosare nei loro studi intrattenendosi spesso a lungo con loro a discutere. Ha aggiunto, poi, curiosi aneddoti su come i Biumo stivassero l’immenso patrimonio: “Giuseppe non poteva separarsi dai suoi lavori, li cambiava frequentemente di posto e non le dico nella villa di Varese, quando la riaprivamo ad Aprile dopo l’inverno: tutto cambiava radicalmente! Una volta si inventò degli scomparti negli armadi, con binari, per ospitare più quadri insieme da estrarre e rimirare. Un’altra volta io, colpita dagli stand che tengono le cartoline nelle tabaccherie, quelli che ruotano per vederne tante insieme, gli dissi che magari potevamo costruirne uno grande per ospitare più quadri e lui lo fece subito: sa, le pareti della nostra casa di Milano non erano infinite!”.
La grande dote di questa mostra, oltre all’allestimento perfetto che lascia respirare i quadri nell’architettura e ancor di più li lascia integrarsi senza fretta nelle vedute cittadine, è il corredo di testi (sia raccolti nell’ottimo catalogo Marsilio, sia stampati in grande sulle pareti). I commenti del Conte seguono passo dopo passo non solo le scelte e i criteri di collezione, ma l’anima di ogni creazione in mostra e quindi della corrente artistica di cui faceva parte rendendola estremamente facile da comprendere anche per chi non ha studiato storia dell’arte.
Per Donald Judd (una delle sue ‘mensole’, stavolta alluminio chiaro e viola: Untitled 1970), Panza sottolinea: “L’opera doveva essere fatta dalle macchine di un’officina. L’intervento dell’artista era puramente intellettuale: il pensare un’idea.”
Svelare gli altri capolavori (una teca di nove sculture iper-realiste di Jonathan Seliger da sola vale la mostra e lascia comprendere perché e chi sceglieva Panza in America, fino agli ultimi anni di attività) sarebbe come togliere una gran sorpresa a un visitatore casuale – i recurring non vedono l’ora di rifugiarsi a Ca’ Pesaro sapendo già cosa stanno cercando. Ed in mezzo, guarderanno a lungo qualche scorcio della meravigliosa città, grande e vera protagonista (in quest’allestimento degnamente resa tale) dei tempi in cui questi coraggiosi mecenati accumularono, per i posteri, questi lasciti.