24 ore, tutte di corsa, a Sydney

Mini guida indispensabile di cultura mainstream

sezione: blog

27-01-2016
categorie: Design, Architettura, Arte, Fotografia, Libri,

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24 ore, tutte di corsa, a Sydney

Mini guida indispensabile di cultura mainstream

Non è una città da 24 ore, ma potrebbe essere un luogo dove facilmente spendere 24 ore tutte di fila. Parlo di Sydney e della meravigliosa cornice di parchi, quartieri e sentieri che dal centro si estende ai bordi tutta attorno ad una costa frastagliata spesso a picco e straordinaria – sia che il mare sia calmo (raro) sia che ribolla di onde. Ci ho speso qualche ora in più, iniziando a poche ore dal mio arrivo con un concerto di Four Tet all’Opera House (acustica straordinaria, file iperboliche, spettacolo di luci assai deludente).
La parte migliore in città? Perdersi tra parchi e riviere, camminando per ore senza meta. Sono stata fortunatamente accompagnata da Katie, una giornalista che ama straordinariamente la sua città e me l’ha fatta scoprire partendo dai luoghi della sua infanzia, stretta di cuore a vedere come è diventata e quanto gli affitti siano ormai proibitivi in alcune aree fino ad allora affordable.

Plug and play come ogni piccolo (o grande) centro australiano, non ha assolutamente l’habit rilassato e cool di Melbourne. Sì - anche qui il fitness è fondamentale ma diventa quasi isterico: provate a camminare non a passo di marcia nei sentieri dei parchi secolari, sarete maledettamente buttati a terra, se siete fortunati solo da parte, da persone, non bellissime invero, anestetizzate dalla forma-killer, che neanche vedono più la pace che sprigiona da magnolie centenarie e hanno l’odio dentro.

Oppure, provate a fare un giro nei quartieri più hip (uno su tutti: Potts Points) il venerdì sera e godetevi la mise della donne. Nessuna, dico nessuna, si sogna di uscire senza aver passato minimo un’ora dall’hair stylist. Tutte in tiro come per un matrimonio, chili di fondotinta per guancia. Too much.

 

Sydney è la mecca del turismo d’arte e design contemporanei. Ci fermiamo all’arte questa volta, perché sul design ne raccontiamo diffusamente ai nostri abbonati (scrivici per saperne di più).

Una sosta, doverosa, è al White Rabbit, spazio (privato, ma gratuito) di una delle maggiori collezioniste di arte contemporanea australiane, Judith Neilson, che si contende il primato della più grande investitrice e mecenate con David Walsh di cui vi abbiamo già parlato.

Il White Rabbit espone solo arte ‘veramente’ contemporanea dal Far East Asia (Cina su tutti) e, per chi volesse approfondire con cognizione di causa, la sua libreria (ed il sito internet) contiene materiale per ogni artista parte di questa enorme collezione privata, che come molte in Australia, è aperta al pubblico. Il palazzo, in una zona posh (Chippendale) non lontana dalla principale stazione dei treni è nel mezzo della frenesia architettonica delle nuove aree della città (ed ha un tea bar da fare invidia a molti boutique hotel delle maggiori capitali del mondo). Il quartiere è una delle mete in città (arte e design wise), sarà glorioso esplorarlo in lungo e in largo sempre che non piova o non sia una di quelle (frequenti) giornate ventose: evitate gonne e qualsiasi cosa vi si impigli in giro!

Per chi ama i centri cittadini super commerciali, Sydney è la città perfetta per la frenesia da shopping massivo. Chi vuole invece solo una sosta super-mirata nelle classiche arcade della città, la sola galleria che consiglio è anche l’unico delizioso cimelio art-deco della città, la Strand Arcade (per carità entrateci solo da George Street ed evitate l’altra entrata).

Molta arte contemporanea – in forme più o meno condivisibili – è esposta nel Quai e dintorni. Non è possibile perdere il Museum of Contemporary Art nel cuore del vecchio porto e proprio di fronte alla Sydney Opera House, adagiato proprio accanto alle grandi navi da crociera che anche qui mangiano paesaggi, metri quadri e visuale. E’ stato recentemente raddoppiato di volume con un nuovo intervento architettonico costato 43 milioni e finito prima del previsto.
Imperdibile la collezione di alcuni grandi contemporanei australiani a cui il museo dedica spesso una o più sale (tra cui Gordon Bennett e Daniel Boyd), la selezione di attività collaterali (dagli screening alle conferenze) e la veduta dalla terrazza: ovviamente è (quasi) tutto gratuito.

Una sorpresa, di spessore, è il Museo di arti applicate e design, il MAAS, che ha tre venue in città.
La più interessante è la gigantesca Powerhouse che si trova nel quartiere Ultimo (di grandi potenzialità, in rapido sviluppo e non lontano dall’area della stazione, quindi praticamente da George Street, se avete voglia di camminare tutto all’indietro rispetto al QUAI, avete 25 minuti di una passeggiata tranquilla e affatto rumorosa).

Oltre ad esposizioni tematiche e alla sezione permanente per bambini e ragazzi (il museo si occupa in questa sede prevalentemente di scienze e organizza attività di tutoraggio e laboratori: fino a 16 anni l’ingresso è gratuito), Powerhouse organizza esibizioni decisamente per adulti, spesso con un taglio storico od antropologico. Quest’ultimo è il caso de A Fine Possession, fino al 22 maggio 2016. Una straordinaria storia del gioiello - maschile e femminile, dalla preistoria ad oggi, da lutto o da matrimonio, che sia talismano o ricordo d’amore, fatto di sapiente intarsio o corallo o di materiali inconsueti o super contemporanei e in ogni caso da ogni parte del mondo – occupa quasi tutta l’ala dedicata alle mostre temporanee, opportunamente oscurata.
Di taglio storico, Powerhouse celebra la protesta civile – e i tool utilizzati dai manifestanti – in una mostra firmata insieme al Victoria and Albert Museum (Londra): Disobedient Objects (affrettatevi, solo fino al 14 febbraio 2016). Si tratta di una trattazione degli ultimi trent’anni di manufatti per proteste creati, spontaneamente ed attivamente, da cittadini in tutto il mondo. Curioso scoprire molte delle idee che hanno fatto breccia da un capo all’altro del pianeta: ad esempio, il classico uncino che i partecipanti ad un sit in usano per legarsi le braccia e rendere molto più complicato lo scioglimento da parte delle forze dell’ordine è stato usato per la prima volta in Australia da cittadini che cercavano di salvare una foresta che stava per diventare miniera (in quel caso la polizia usò spray al peperoncino negli occhi ma fu, dopo anni di estenuanti processi, sanzionata). E’ diventato subito un must per le proteste in tante altre città, da Londra a Seattle.

Quello che rende un museo come questo speciale, a differenza di tanti altri parchi o musei scientifici presenti nelle grandi metropoli che utilizzano la cultura come attrattore e/o vocazione per quartieri, è l’interazione con la sua collezione in modi non seriali, decisamente innovativi. Come? Ad esempio chiamando un artista a farlo – ça va sans dire se l’artista è Brook Andrews le cose cambiano e non poco.


Fino al 28 agosto 2016, nello spazio dedicato alle mostre temporanee – nella fetta più piccola di esso – è possibile anche gustare una piccola grande perla: Evidence, la personale dell’artista australiano di origini aborigene che, circa 42nne, firma una personalissima ricognizione di reperti ed archivi del museo (affiancati da sculture luminose e grandi drappi ed intersecata da scure sculture in legno – una sorta di rovi ‘pensanti’ che lega insieme la scoperta di reperti ed agghiaccianti prove di sterminio).

Ovviamente la mostra è corredata da un catalogo (Evidence, Brook Andrew, MAAS Media, ISBN 978-1-86317-167.0, 130 pagine), che racconta molto di più di quanto si trovi in mostra (il tutto è stato pensato per accompagnare la mostra Disobedients ma è assolutamente autonomo e, anzi, funziona meglio se pensato distaccato: fortunatamente la data di chiusura di questa mostra è più in là nel tempo).
In breve, Evidence è una scoperta, lenta e dilaniante (e del tutto fabbricata dal visitatore in quanto i manufatti sono nascosti in teche e scatole coperte da teli), dello sterminio dei nativi da parte dei non nativi. E di una fetta recente della storia, economica e politica, dell’Australia e del continente mischiando sovente ad esso quella, a sprazzi, di altre colonie ex britanniche (come l’India, ma non solo).
Uno dei reperti, conservati dal museo e scrupolosamente registrati negli allora grandi libri di carta che segnalavano la consistenza delle collezioni, e che Andrew nasconde in una wunderkammer della violenza della classe dominante - è ‘ pelle abbronzata di donna aborigena, bruciata’.
Un altro – curioso e brutale insieme - reperto è una sedia per aborti. L’artista si concentra anche su altri temi di ‘diseguaglianza’ nel suo paese natale e uno di essi è l’aborto (ancora considerato un crimine in Australia eccetto che in tre stati). Non tutte le donne - e soprattutto sono quelle delle zone rurali le più penalizzate - hanno garanzie di un corretto accesso alla procedura medica e a tutte le informazioni ad essa relative. Il catalogo, in questo come in altri casi, racconta anche tutte le vicissitudini delle leggi relative e della storia di questa pratica in Australia.

Val la pena qui di ricordare che l’artista non è nuovo a grandi mostre in ogni altro continente (in Europa, ha esposto di recente alla Tate di Londra e al Reina Sofia di Madrid) e che la sua pratica è molto caratterizzata dall’utilizzo di residenze, lavoro nelle comunità e forte taglio politico-sociale. Sarebbe stato avvincente vederlo rappresentare l’Australia alla prossima biennale d’arte di Venezia (curata da Christine Macel) ma sarà un’altra artista del paese a farlo. Anche lei lascia molto parlare di sé per un rinnovato impegno politico e sociale, anche se di timbro diverso: parliamo della fotografa, di origini aborigene, Tracy Moffatt (una grande parte dei suoi scatti è nei fondi, e spesso in mostra, della National Gallery di Canberra).