Il design [involontario] alla 13ma Mostra di Architettura di Venezia

Tra i padiglioni: USA, Polonia, Serbia, Bahrain. E poi Olafur Eliasson con Little Sun

sezione: blog


categorie: Design, Architettura, teatro, performance,

» archivio blog

Il design [involontario] alla 13ma Mostra di Architettura di Venezia

Tra i padiglioni: USA, Polonia, Serbia, Bahrain. E poi Olafur Eliasson con Little Sun

Eh sì che tentativi ce ne sono stati (in passato anche dalla destra al governo in Italia) di fare di Venezia il palcoscenico di un’ennesima biennale, quella di design. Non è ancora successo, ma di sicuro alla Biennale di Architettura curata da Chipperfield, forse dato il tema Common Ground (e data l’innegabile crisi nel mercato di riferimento, quello delle costruzioni), nei padiglioni nazionali – ed in una incredibile eccezione anche nella sezione curata da Chipperfield – vi è tanto design per interni ed esterni.

Involontario, di complemento allo sviluppo del padiglione, tuttavia c’è, pesa, si vede, in alcuni casi è straordinario oltre che dannatamente utile alla collettività più vasta possibile. Di seguito una guida senza tempo per vederlo, anche perché, pure dopo la chiusura della Biennale potrete rintracciarlo (e comprarlo) direttamente dai suoi autori o nei negozi che già lo vendono.


Il Leone per le partecipazioni nazionali sarebbe dovuto andare ex-aequo a tre Padiglioni- America, Polonia, Bahrain – solo i primi due, e meno male almeno loro, hanno ricevuto una menzione speciale della Giuria.


Solo la genesi della partecipazione USA è una best practice perfetta nella progettazione, sia etica sia acuta. Curato dall’Institute for Urban Design (un club per architetti, che si basa su membership, che ha solo due impiegati di cui uno part-time ed un budget annuale inferiore ai 200.000 euro), è puramente fantastico come sia stato questo piccolo istituto a vedersi assegnata la curatela: semplice, per concorso (indetto dal Dipartimento di Stato e svolto dal National Endowment for the Arts advisory committee)! E come ha fatto a trovare il budget per esserci e portare a Venezia una proposta così innovativa ed eccellente come Spontaneous Interventions? Aggregando e facendo a sua volta una call.


Cathy Lang Ho
, direttrice dell’Istituto, ha infatti chiesto ai suoi colleghi redattori di Architect – rivista americana di architettura -  di aiutarla, insieme al curatore della sezione architettura e urban design del Guggenheim, David Van der Leer ed altri tra advisor e co-curatori. Il risultato è il padiglione più bello ed istruttivo che gli USA abbiano mai redatto e presentato nella storia di questa manifestazione, oltre che uno dei più avvincenti che la storia delle Biennali di Architettura veneziane ricordi, secondo forse, a mio parere, solo a Metavilla (della Francia pre-Sarkozy).


Composto da un layout verticale ed orizzontale assai funzionali al core business della mostra – spicca soprattutto quello orizzontale: un vero e proprio pavimento che fa la storia del design, stampato su GFloor, un innovativo polivinile prodotto da Better Life Technology (BLT, Kansas City) - firmati dai designer M-A-D e da Freecell, il padiglione permette una visione selettiva, a cura dell’utente che di volta in volta lo visita, di tutti i progetti in mostra. Sono 124 - che rappresentano soltanto una selezione tra i più votati dal pubblico in uno speciale concorso indetto dai commissari - e sono accessibili per parole chiave.

Sulle pareti, dei pesi marchiati con temi quali sostenibilità, verde, etc, possono essere spostati: così facendo si scorre e si lascia scendere un banner che sintetizza il progetto di architetti o designer che risponde a quel bisogno. Ognuno dei progetti di design è assolutamente auto-commissionato, tuttalpiù una serie risultano commissionati da “clienti” sui-generis, quali comunità, quartieri o scuole ed altri no-profit.

In una parola, il design in mostra in questo padiglione si situa nelle pieghe dei grandi progetti architettonici e in una certa maniera è antagonista di una certa industria del mobile o dell’outdoor: si tratta di un agente diretto ad un cambiamento sociale, talvolta assai localizzato anche se rispondente a bisogni ed urgenze planetarie. Quasi nessuno di questi progetti sembra essere stato originato da questioni estetiche o funzionali e quasi tutti sembrano rispondere a precisi atti di disobbedienza civile per uno scopo condivisibile dalla maggior parte di utenti e cittadini possibili.
Partecipatorio, inclusivo, orizzontale ma non per questo non tattico, dedicato maggiormente a spazi urbani o condivisi: questo è il design che il padiglione ospita.

Alcuni esempi? Macchinette che distribuiscono bombe di semi; piste ciclabili guerilla; parcheggi abbandonati di tarmac trasformati in micro foreste; giochi da parco per bambini smontabili e trasportabili quando proprio i parchi non ci sono e li si inventa qui e lì; non potevano mancare quindi micro-parchi da ubicare in parcheggi od ancora un mercato per ortaggi mobile… fino ai better blocks (una sorta di beauty contest per rioni, di modo che diventino più desiderabili). Continuando con strutture e sedute ricavate da fences in disuso montate intersecando almeno una traiettoria a 90 gradi...

L’elenco è lungo: ma la somma delle potenzialità che vedrete all’interno del padiglione è ben rappresentata dal progetto che vi è all’esterno, Commonplace: un’arena con tanti parallelepipedi rosso-arancio, firmata da Interboro (studio di design, architettura e planning con sede a New York e diretto da Daniel D’Oca, Georgeen Theodore, Tobia Armborst).
Nelle parole degli autori, si tratta di una sorta di salotto comune da esterni, che rende le città od i luoghi dove viene ubicato, più inclusivi. Utilizzato per i workshop e le tante conferenze che il padiglione ospita sin dai giorni della vernice (la prossima sessione dal 6 al 12 ottobre, Can Activism Protect Architecture? A cura della Columbia University), Commonplace è smontabile e customizzabile e…non ritornerà negli USA oppure negli uffici dei suoi creatori, bensì verrà donato ad una scuola veneziana quando la Biennale si conclude.
Il numero di agosto 2012 della rivista americana Architect è dedicato interamente al Padiglione e contiene utili schede sui progetti in mostra, che sintetizzano anche i giorni e la forza lavoro necessari a riprodurli.


Il Barhain, già Leone D’oro la scorsa edizione con Reclaim, spicca per un exhibit design funzionale ed avvolgente. Background, questo il titolo del Padiglione situato all’Arsenale, si presenta un luogo non affollato di oggetti ed impulsi, ma di oggetti e di sensazioni, come lo scorrere del tempo attraverso la modificazione della luce.
Un curioso sgabello portatile, alcune chaises longues da pavimento e soprattutto dei bancali, dello stesso stile e proporzioni costitutive degli sgabelli, a fare da porta riviste. E’ la più riuscita traduzione di un immaginario (a firma di tre italiani: Francesco Librizzi, Matilde Cassani, Stefano Tropea). Seconda volta alla Biennale di Architettura, il padiglione a cura di Noura Al Sayeh, ha una missione ambiziosa: cercare di indagare le fonti (mediatiche e non) che assegnano al Bahrain un immaginario che poi è quello che le persone associano alle isole che compongono il regno. Dato che non è sempre possibile governare i media, il padiglione offre uno spaccato su cosa è e cosa dicono sul luogo, sul modo di vivere e di fare cultura. Prevalentemente attraverso stati d’animo, sensazioni e piccoli input – tutti fusi in un ambiente coeso e straordinario (come fu per Reclaim).


La Polonia, menzione speciale (fu leone d’oro come miglior partecipazione alla XI Biennale d’Architettura con Hotel Polonia) con Making The Walls Quake as if They Were Dilating With The Secret Knowledge of Great Powers, a cura di Katarina Krakowiak. Ancora una volta organizzato dalla Zacheta National Gallery of Art di Varsavia, nei giorni dell’opening è stato inaugurato con una performance canora: il titolo del padiglione è preso da una citazione di Charles Dickens (Dombey and Son). E’ una installazione sonora che per la prima volta rende visibile, oltre che udibile, attraverso le vibrazioni, i segni e le forme segrete dell’ambiente costruito. Sono stati costruiti dei pannelli di legno ed è stato rimosso un falso soffitto. Sotto di essi (ed anche all’esterno del padiglione) è stato nascosto un fitto reticolo di registratori dei rumori naturali dell’edificio che vengono amplificati e mandati, real time, nel padiglione stesso sotto forma di suoni (sconosciuti e mai uditi).
Anche Carsten Nicolai ha fatto la stessa operazione in una piazza pubblica a Napoli nel 2010, con la sua installazione Pioneer che campionava e distribuiva in forma di suoni, in tempo reale, rendendoli per la prima volta udibili, i rumori dei terremoti.


Il suono è protagonista della letteratura sull’architettura e del lavoro di tanti artisti che si concentrano sul significato dello spazio, che quasi tentano di ascoltare le architetture, di tradurre le forme in altri linguaggi, ampiamente condivisibili, come il suono. La Krakowian ha inteso fare una scultura sonora perché ha inteso concepire il padiglione come un sistema di ascolto. E un trasmettitore di fenomeni.


Accanto, il padiglione Serbo parte da una nota linguistica, in serbo la parola 100 e la parola tavolo sono le stesse. Ospita quindi un enorme tavolo bianco (e bianco è l’unico colore presente) di 22x5 m, che lascia ai visitatori soltanto uno spazio di 1.5 metri per girarci intorno.
Anche il tavolo serbo, come il padiglione polacco, è amplificato. Ma per incentivare la coesione delle presenze attorno ad esso, che vengono anche filmate quando entrano. Il tavolo si regge su solo 4 gambe ed è intelligentemente coadiuvato da staffe (invisibili) di sostegno. Secondo gli autori, nessuna risposta o forse tutte e cento quelle che ci vengono in mente, è adatta a capire qual è l’uso di un tavolo enorme ed acustico come questo.




Il Cile – all’Arsenale - crea un transfer emotivo, creando un pavimento di sale a Chancha: Chilean Soilscape. Il sale di Tarapaca fa da base e da contesto, tutto da calpestare e da percepire, a otto studi di architettura le cui creazioni, debolmente illuminate nello spazio, si alleano proprio grazie al suolo, quasi più una sintassi che un elemento architettonico.


Ma è la panca del Padiglione Irlandese, a fianco di quello cileno, autori Heneghan Peng Architects scelti a rappresentare il paese per la qualità dei loro progetti internazionali, ad affascinare i visitatori – come oggetto in sé e prima di comprenderne il reale funzionamento. Si tratta di una panca basculante, utilizzata per parlare con un oggetto dell’acqua e dei livelli che essa può raggiungere (in una città come Venezia e in un luogo come le Artiglierie che portano ancora i segni dell’ultima inondazione sui mattoni). Ispirati da un sistema applicato sul Nilo, hanno disegnato una panca che oscilla per bilanciare i pesi di chi ci si siede sopra.


Mario Nanni,
poco distante, ha una personale dei suoi progetti d’arte con la luce. Alcuni, indimenticabili, come la primitiva e poetica creazione del 1999 “La infilo, la giro. Apro, entro. La piccola leva è sempre lì. Che mi aspetta. Accendo la mia lampadina. La mia anima è in casa.”

Tuttavia è ancora una volta Olafur Eliasson (non premiato, incredibile) a battere ogni livello sul progetto. Lo abbiamo già visto a Venezia parlare di luce, uno dei suoi temi preferiti, sia campionando l’orizzonte della laguna in un padiglione ad hoc costruito da David Adjaye in occasione di una biennale d’arte (2005) all’Isola di San Lazzaro, sia invitato in precedenza al Padiglione dei Paesi Nordici nel 2003 (ed ancora, alla scorsa biennale di architettura per un’installazione tra arte e design low cost, intitolata Your Split Second House).
E’ protagonista quest’anno con Little Sun, una luce led incapsulata in un piccolo sole portatile di plastica di colore giallo intenso, che si ricarica a batteria solare. In vendita alla Biennale, per ogni acquisto, finanzierà la distribuzione gratuita di un altro esemplare a chi non è ancora allacciato ad una rete elettrica. La lampada costa meno di 20 euro, si trova al bookshop della Biennale (e alla Tate di Londra è stata allestita la medesima mostra che vedete a Venezia, le lampade e un mini festival: Olafur ha chiamato video makers ed artisti a regalare un film sulla luce ai visitatori).