Biennale Teatro a Venezia. Romeo Castellucci Leone D'Oro

Tutto il day by day con brevi feature degli spettacoli al debutto

sezione: blog

02-08-2013
categorie: teatro, performance,

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Biennale Teatro a Venezia. Romeo Castellucci Leone D'Oro

Tutto il day by day con brevi feature degli spettacoli al debutto

Si è appena chiusa a Venezia la 42ma edizione della Biennale Teatro che si è svolta, dal 2 all'11 agosto, tra La Fenice (Ute Lemper ha inaugurato il 2 agosto alle 21.30 il festival), gli spazi teatrali dell’Arsenale (Teatro alle Tese, Teatro Piccolo) la sede della Biennale (Ca’ Giustinian, che ospita i talk e la premiazione del Leone D’Oro Romeo Castellucci), la Giudecca e lo splendido campo di San Francesco della Vigna a Castello alto.

Viene da lontano la storia di questa che tra le Biennali è sempre stata la mia favorita, unica al mondo (non si sforza di competere con Avignone, Volterra o Sant’Arcangelo: ha un carattere tutto proprio).
Il Festival del Teatro della Biennale iniziò nel 1934, a seguire l'avvio dei Festival di Musica (1930) e del Cinema (1932). L'idea che diede inizio al Festival, allora diretto da Renato Simoni, fu rappresentare i classici di soggetto veneziano nello scenario naturale di Venezia. Tra i primi spettacoli, Il mercante di Venezia di Shakespeare, in campo San Trovaso, con la regia di Max Reinhardt e i commenti musicali di Victor de Sabata. Dalla seconda edizione del 1936, il Festival assunse frequenza annuale. Ed ora, diretta da Alex Rigola che debutta come regista con una pièce tratta da Bolano (El polícia del las ratas), la Biennale Teatro è anche provvista, come la Biennale Danza di una sezione College dedicata alla formazione (Shakespeare, un itinerario in 5 brevi spettacoli alla Giudecca sui personaggi shakespeariani, scelti e visti da altrettanti registi - Angélica Liddell, Claudio Tolcachir, Gabriela Carrizo, Jan Lauwers, Krystian Lupa. Nascono così anche le versioni site specific, modulate cioè sui luoghi e con i partecipanti ai laboratori veneziani, degli spettacoli di Motus, Nella Tempesta, e La Veronal, Picasso - Pájaros muertos. E nasce così anche Natura e origine della mente, elaborato da Romeo Castellucci con i 20 attori e performer del suo workshop veneziano).


Dieci giorni di spettacoli con alcuni dei più bei nomi della scena internazionale: accanto ad Ute Lemper, Angélica Liddell, fra le vere rivelazioni delle ultime stagioni con una personale versione del Riccardo III di Shakespeare; David Espinosa e il provocatorio “minimalismo” di Mi gran obra, esempio di teatro al tempo della crisi. E ancora: la regia d’arte di Krystian Lupa con Ritter Dene Voss di Thomas Bernhard; le riletture graffianti dei classici di Thomas Ostermeier, questa volta Un nemico del popolo di Ibsen; la “scrittura” tecnologica di Guy Cassiers per Sunken Red di Jeroen Brouwers con lo straordinario interprete Dirk Roofthooft; il mondo onirico di Gabriela Carrizo e dei Peeping Tom così come appare nel loro ultimo spettacolo, 32 rue Vandenbranden; la vitalità del teatro argentino, novità della scena di questi anni, con Claudio Tolcachir, regista e autore di El viento en un violín; la felice sintesi fra arti diverse secondo Jan Lauwers che firma Marketplace 76; Shakespeare riscritto da Tim Crouch attraverso i personaggi minori delle sue commedie nella messinscena di Fabrizio Arcuri: Banquo da Macbeth, Fiordipisello dal Sogno di una notte di mezza estate, Cinna da Giulio Cesare, Calibano dalla Tempesta. Infine: Declan Donnellan, fra i più influenti registi europei ad aver affrontato i grandi classici della drammaturgia di tutto il mondo, con Ubu Roi di Alfred Jarry; e il celebrato drammaturgo, attore e regista libanese Wajdi Mouawad con il monologo Seuls.

 

Abbiamo seguito per voi (e lanciato day by day ai free subscribers che desiderano ricevere le nostre feature) il festival gli spettacoli di Ute Lemper, Alex Rigola, Guy Cassiers, Wajdi Mouawad, Motus, l’attesissimo Ubu Roi firmato da Declan Donnellan, Claudio Tolchacir, David Espinosa, Cinna di Arcuri, Krystian Lupa/Stary Teatr, Ostermerier, Angelica Liddel, lo spettacolo di Castellucci e i workshop su Shakespeare. Chi di voi cerca un daily con altre curiosità o recensioni di altri spettacoli – e si trova a Venezia o visita il sito della Biennale – può prendere il giornale gratuito La Tempesta, frutto di uno dei workshop di Biennale Teatro College. La redazione, che ha avuto la sua sede a Ca’ Giustinian, nasce attorno al laboratorio di critica teatrale condotto da Andrea Porcheddu, coadiuvato da Roberta Ferraresi.  

DAY BY DAY 


Giorno 1, 2 Agosto, 2013:

Leoni, topi, commedia e cabaret in tutte le lingue della vecchia Europa

Il leone d’oro Romeo Castellucci ed il leone d’argento Angelica Liddell sono stati premiati in una restaurata Sale delle Colonne a Ca’ Giustinian. Subito dopo la fine della Biennale Danza (che ha utilizzato questa sala per diversi spettacoli) il responsabile tecnico della Biennale ci ha informati che è stata acusticamente rinnovata (in soli 20 giorni) e l’effetto è assolutamente incredibile.
 

La cerimonia di premiazione è stata aperta dal Presidente della Fondazione La Biennale SPA e dal direttore Alex Rigòla. Baratta ha informato sui numeri eccezionali della prima Biennale College Teatro, che ha ricevuto più di 1600 application da registi, attori, designers di 28 paesi. Tra essi sono stati scelti 350 giovani creatori per partecipare ai laboratori con le compagnie invitate (tra cui Motus e Societas Raffaello Sanzio) al fine di performare poi nel calendario ufficiale della Biennale Teatro (che, ricordiamo, si svolge durante la Biennale Arte che è ancora in corso, fino al 24 novembre).


Presentando le motivazioni che hanno mosso la Fondazione ad attribuire il Leone d’Oro, Baratta ha specificato che tra esse vi era la ragione che un tale straordinario creatore come Castellucci non è mai stato premiato in Italia (invece è altamente acclamato, premiato e prodotto all’estero), quindi il nostro paese, tramite la Biennale, è come se tentasse di coprire un vuoto nei suoi confronti (la sua compagnia, Societas Raffaello Sanzio, i cui membri Castellucci ha salutato uno dopo l’altro leggendone i nomi, offre lavoro a più di quindici persone a Cesena).

 

Emozionatissima dal riconoscimento, il Leone D’Argento Liddell, nata a Figureras nel 1966, ha commentato così il momento: “Venezia, per me, è magica e ha sempre esercitato una vasta influenza sul mio lavoro e sulla mia carriera: solo cinque anni fa mi trovavo qui a scrivere La Casa de La Fuerza (un toccante lavoro in cui la regista ed attrice si infligge pratiche autolesioniste) mentre la mia compagnia era sul punto di sciogliersi. Solo cinque anni dopo sono qui con il Leone d’Argento.

 

Romeo Castellucci (Societas Raffaello Sanzio): “Ho finalmente una nuova licenza speciale, è come doppiare un capo, è come tornare indietro perdendo pezzi e strumenti, è come uccidere la propria lingua madre, raggiungere il vuoto radiante nel teatro; sono senza predicati e non voglio significare più niente ma mostrare la rappresentazione così come è”.

Alex Rigola – in prima mondiale assoluta sold out ieri con il nuovo lavoro El Policia de la Ratas (da un romanzo dello scrittore cileno Bolano), la cui riduzione in studio-reading era stata già presentata in Germania – racconta di due poliziotti che lavorano su un misterioso caso di omicidio e quindi cercano prove e fatti per scoprire l’assassino. Un set potente, lineare e spartano (due sedie, un grande topo, un piccolo e bianco topino di quelli canditi che si mangiano; una flebo che gocciola sangue su un pavimento immacolato) è la casa di un racconto non lineare in cui la società dell’uomo si mischia e inter-laccia con quella dei ratti fino a confondere ogni piano e sovrapporre l’infame, l’onorevole, l’etico. La pièce, che finisce con un fortunatissimo coup de theatre che solo spazi veneziani come l’Arsenale possono regalare (i due personaggi – il super brillante Joan Carreras, il poliziotto giovane; una spalla forte, drammatica e imponente come lo spagnolo Andreu Benito –  escono da una porta aperta sulle assolate Gaggiandre), sarà in replica il 3, 6, 7 agosto sempre alle 19 (55’).


Graffiante, irriverente, dolce ed amara insieme, elegante ed affascinante, la famosa performer Ute Lemper ha offerto un memorabile concerto (sold out) che ha avuto l’onore di essere la data di aperture di quest’edizione della Biennale. Emozionante, intenso concerto solista, ha dispensato canzoni francesi, tedesche, inglesi ed italiane (al piano l’artista era accompagnata da Vana Gierig mentre alla fisarmonica da Victor Villena) (75’). Prima dello spettacolo, l’artista ha tenuto nelle sale de La Fenice una masterclass di due ore.

 

Giorno 2: 3 Agosto, 2013

 

Infanzia violata, nazionalità, due video design molto diversi sulla scena


Una pièce di due ore sull’esistenza precoce di un espatriato, lontano dai desideri e dalle aspettative di suo padre: l’ironico, cinico e talvolta aspro monologo Seuls della rivelazione franco-canadese-libanese Wajdi Mouawad è eclettica, di incredibile durata che non convince per la piattezza della descrizione del gap generazionale tra padre e figlio in eventi comunque drammatici come una Guerra civile (quella libanese).


La storia si dipana su una sorta di caso tipo, molto comune, di dottorando che lotta contro la sua pigrizia e per la relazione non facile con suo padre, distante e immutato nelle sue vestigia di immigrato infelice e scontento di qualsiasi passo del figlio in un mondo differente da quello che doveva essere il “loro”. Non mancano gag e momenti poetici, questi ultimi soprattutto quando si parla dell’amore, tradito, che il giovane laureando aveva; tuttavia questi momenti non bastano a elevare il ritmo che è meno brillante di quanto ci si aspettava, data anche l’abbondante durata. Il monologo termina con un grande momento di action painting (momento adatto per rivelare le funzionalità del set). Dolce ma efficace il design video nella pièce: non si tratta come spesso accade di un vero e proprio secondo atto, ma eleva la qualità del sogno e dell’introspezione che altrimenti andrebbe perduta.


Abbiamo chiesto al regista se avesse avuto ragioni specifiche per la scena pittorica, mi ha detto di no ma che per farla ha dovuto, con piacere, visitare avidamente tanti musei. Interrogato dal moderatore dei talk e dal pubblico sui temi principali del suo monologo (identità, nazionalità, quale teatro per quale pubblico se la condizione di espatriato diventa sempre più una costante nelle nostre esistenze), il regista ed attore Mouawad ha affermato: “Lavoro prevalentemente basandomi sull’intuizione, ma sento tanto la condizione dell’espatriato e che questa è comune a tante più persone di prima. Siamo tutti in esilio, siamo tutti ebrei dal mio punto di vista. Che tipo di teatro devo progettare e per che tipo di pubblico? Chi siamo e chi vogliamo essere? E’ questa secondo me l’essenza della tragedia da indagare.”


Giorno 3: 4 Agosto, 2013

Ubu Roi, diritto al cuore. "Siamo quel che vediamo".

Il terzo giorno di festival è stato dominato dalla compagnia di Declan Donnellan (la parte francese) con Ubu Roi a La Fenice, giovanissimi gli interpreti, tra cui un venticinquenne.

Nello stesso solco tracciato da Seuls, l’infanzia violata e i temi della nazionalità dominano anche Sunken Red di Guy Cassiers (Toneelhuis), un altro monologo interpretato dall’eccellente, incredibile attore Dirk Roofthooft (che lavora anche con compagnie come London Sinfonietta e con Jan Fabre). Differentemente dal primo pezzo in programma (scritto, diretto ed interpretato dalla stessa persona), questo è un adattamento di un romanzo di Jeroen Brouwers come capita spesso nel teatro di Cassiers che si concentra sulla letteratura. La durata è densamente calibrata allo svolgimento della storia e la musica ed il sound design sono della più eccelsa qualità. Il set è minimale, confuso e terrorizzante in certi sensi: il personaggio si rivela un disgustoso uomo di mezza età che nasconde in se’ stesso un’infanzia difficile ed abusata ed una relazione difficile con il mondo femminile a cominciare da sua madre. Il design video qui fa la differenza. Non auto-imponendosi su una prova attoriale perfetta (Roofhooft è anche co-autore dell’adattamento della sceneggiatura e può anche recitare il monologo in altre lingue come l’olandese, il francese, lo spagnolo oltre all’inglese, la versione che ha debuttato nel 2004 ed è ancora in tour). L’architettura video permette di leggere brani di azione e rileggerli in momenti differenti ma è abile anche a ritrarre profondamente il mondo interiore di Piccolo Danny, il protagonista della storia, meglio di mille parole, altri minuti e differenti partizioni di set grazie ad un insieme di cctv che riprendono a distanza ravvicinata l’attore, i cui output vengono poi mandati in onda su larghi schermi fatti di materiali inusuali, come il vetro. Come per Seuls, la solitudine informa orizzontalmente e verticalmente lo spazio della pièce. Ma qui, grazie ad una storia più solida sia nella scrittura che nell’adattamento, la partizione è perfetta e la scatola imprigionante di parole ci affoga in quel preciso momento, Giacarta 1943, in un campo di prigione delle forze occupanti giapponesi, con nessuna via di fuga per anime ed orecchie.
 

Il giorno del compleanno del regista (nella note, al bar del festival a Ca’ Giustinian, vi è stato un doppio, affollato party per lui e per Castellucci che compiva del pari gli anni) il pubblico lo ha acclamato non senza contrasti (chi amava e chi no lo spettacolo si parlava fitto nel campo fuori al teatro) ma con grandissimi applausi alla fine della pièce, tanto che il regista (ed il compagno e scenografo Nick Ormerod con cui manda avanti da oltre venti anni la compagnia Cheek by Bowl) è salito sul palco brevemente. Questo Ubu Roi diretto da Donnellan e scenografato appunto da Ormerod è un paradosso nel paradosso: una cena bobo diventa stage per conflitti tra persone, e specialmente tra genitori e figli. Come accade nelle concitate azioni horror di Funny Days (Michael Haneke), un ragazzo filma le disfunzioni parentali (dalle trace di escrementi nella toilette, al piacere carnale, allo spazio per vestirsi) in due direzioni entro cui la scena è composta (un retro e un davanti), mentre la video proiezione che genera in diretta viene mandata in proiezione al centro della scena, a favore di pubblico. In mezzo a questa mise en place, sgorga a fiotti tutta la potenza patafisica di Ubu.
 

Il pubblico ha amato ed applaudito entrambi i monologhi. Abbiamo quindi chiesto al direttore della Biennale Teatro, Alex Rigola, ieri al dopofestival (il bar del palazzo della Biennale, Ca’ Giustinian, giusto di fronte a Punta della Dogana, con una grande terrazza) se c’è una scelta speciale dietro averli programmati insieme, questi due intensi monologhi sulla memoria, nazionalità e devianze per fare godere una tale e lunga notte di teatro. Lui ci ha detto di sì perché entrambi i pezzi sono in grado di raccontare – anche se in modi differenti e con sensibilità differenti – temi che si rincorrono e che sono assolutamente radicati nei nostri tempi, non importa di quale nazionalità si parli.
 

Una sala da pranzo bianchissima che incorpora e rappresenta una vita senza sorprese (“Io e Nick abbiamo deciso di realizzare così il set perché a Parigi una volta la nostra compagnia ci affittò un appartamento immacolato, pieno di prescrizioni e divieti: non vedevamo l’ora di sparare il ketchup sul muro, proprio come fa Père Ubu in scena”, dice Donnellann) eppure con qualche macchia: questa è la cornice dove gli attori francesi che hanno sempre lavorato con Donnellan iniziano a miscelare Ubu Roi, seguendo un folle ritmo che si interseca con uno svolgimento sincopato della trama della famosa pièce.Il linguaggio di Jarry è giustapposto a forti dosi di attualità (il personaggio principale, Père Ubu, trova anche il tempo di scendere in platea e chiedere se casomai ci fossero stati giudici da spedire nella grotta della tortura ed essere uccisi, facendo un po’ il verso alla recente condanna di Silvio Berlusconi).
 

Abbiamo incontrato gli artisti al bistrot del festival, tutti erano toccati profondamente dal potere di Venezia ed in particolare de La Fenice, dove hanno massivamente sentito l’omaggio straordinario del teatro strapieno tutte le volte che guardavano dal lato del pubblico. Specialmente Xavier Boiffier (Bordure) ed il più giovane degli attori della pièce, Sylvain Levitte (Prince Bougrelas).

 
Giorno 4: 5 Agosto, 2013 

Troppo rumore per nulla o quando il silenzio è d’oro. 

Al quarto giorno di festival, il satori si chiama, finalmente ed era ora, David Espinosa (1976). Una delle pièce minori del festival di teatro veneziano indetto dalla Biennale viene di soppiatto a rubare la scena ai grandi e non importa se un grande critico italiano (scrive su Repubblica e ha visto lo spettacolo il mio stesso giorno cioè ieri) si sia affrettato a criticarlo con l’organizzazione (attenzione, la strobo è pericolosa dovete avvisare; non è affatto adatto ai bambini, dovete mettere in guardia i genitori…).

Mi Gran Obra è una prima italiana, finanziata dall’Institut Lull che si occupa di diffondere la lingua catalana e la cultura della più prospera regione spagnola (a Venezia ha già spesso partecipato ad altre sessioni della Biennale Arte e Architettura).
Vi invito a vedere la pièce su Vimeo (i link sono segnalati in questa news), ma ciò non toglie che l’architettura dello spettacolo è originalissima e va soprattutto vista dal vivo con la grazia e la astuzia del suo regista ed interprete unico. Piccola sala, prologo che un po’ sconcerta (l’artista spiega brevemente che questa era finalmente la grande opera che sognava, dato che aveva un budget di tutto rispetto per farla, racconta infatti di un colloquio con un grande architetto scenografo a cui vuole rivolgersi per realizzare un palco grande quanto un campo di calcio), infine l’atto: il pubblico entra in piccolo gruppo in una stanza, è sistemato a seconda della sua altezza.
I più piccoli sono davanti e, per contraddire il blasonato critico teatrale di La Repubblica, insieme a me vi erano due bambini per nulla scandalizzati dalla audacia del messaggio: leggere La Repubblica (soprattutto R2) o Panorama o Espresso è sicuramente più diseducativo.

I più lontani dal cuore dell’azione hanno dei binocoli per servirsene durante l’azione sui generis: uno spettacolo muto, di circa 50 minuti, vede Espinosa inscenare azioni con piccole miniature di donne ed uomini che dispone con una grazia ed una levità unici su un piccolo quadro adesivo posto su una scrivania grigia da ufficio (no, non li ha fatti fare da un costoso scenografo, glielo abbiamo chiesto tutti: si tratta delle miniature usate per i plastici dei treni o dei porti).

Dalla nascita alla vecchiaia, passando per l’amore; passeggiate al parco, marce e matrimoni: un grande caleidoscopio della vita e del brutto e del bello dell’essere umani (sesso e coprofagia comprese: il regista precisa che tutti ma proprio tutti i corpi in miniatura sono in commercio, segno della dinamicità del modellismo e segno che il critico di Repubblica dovrebbe censire e proibire tutti i negozi di giocattoli del mondo…!).

Mi Gran Obra è una metafora perfetta e struggente, è teatro in valigia, una commedia dell’assurdo senza alcun bisogno di lingua e traduzioni, universale e particolare insieme e senza mezzi termini diretta, onesta, dura o dolce a seconda della strofa. Alla fine grottesca e politically incorrect, manifesta il peggior incubo della Cia: Obama assassinato in Messico, ma è solo un gioco (il fucile è quello a freccette dei bambini).

Mi Gran Obra (un proyecto ambicioso) è lo spettacolo più puro, intelligente, graffiante che abbia mai visto e probabilmente, anzi sicuramente il meno costoso da quando scrivo di teatro, 1991. In sala (a Ca’ Giustinian, stanza 19) fino al 10 agosto in due repliche (alle 12 e alle 15), è il vero masterpiece di Biennale Teatro da non perdere soprattutto per affondare nella conoscenza della nuova drammaturgia spagnola. Espinosa ha una forte esperienza anche di improvvisazione, danza e capoeira (ha lavorato anche nella compagnia di Rigola, il direttore di Biennale Teatro).

Stessa cosa non può dirsi di Claudio Tolcachir, drammaturgo argentino che ieri ha debuttato al Goldoni. El viento, en un violin è caduco, perché gli manca l’anima (due storia di famiglia si intrecciano con dramma finale: la madre isterica e il figlio unico viziato e debosciato; la cameriera della prima ha una figlia lesbica che si fa mettere incinta dal figlio della isterica con ricatto). Slavato, pieno di luoghi comuni peraltro senza creare alcuna magia, viene ad appiattirsi su due personaggi insipienti, la madre e la governante (che è poi la migliore in scena, Araceli Dvoskin) e su stereotipi macisti sull’omosessualità femminile e non solo.
Il pubblico in sala, gremito anche il Goldoni, ha mostrato per la maggior parte invece di gradire molto la pièce, che non era una prima assoluta in Italia avendo debuttato nel 2012 al Napoli Teatro Festival.

 

Giorno 5: 6 Agosto 2013

Fiamminghi vs Italiani 8:0

 

Non pervenuti i tentativi di Fabrizio Arcuri: una riscrittura firmata Tim Crouch di alcuni personaggi minori di Shakespeare, ciascuno per ogni giorno di festival. Io ho visto Artefatti/Io Cinna (fino all’8/8 con Io Calibano, uno studio), che racconta in chiave disconnessa e accidentata la morte di Cesare e la storia di Cinna, ma “non quel Cinna, un altro Cinna” (come ripete annoiato l’interprete principale, Gabriele Benedetti) un poeta squattrinato al giorno d’oggi...Non ci sono sottotitoli (ergo gli stranieri in sala non capivano), il mischione di epoche è fastidioso e con pochi collegamenti per renderlo efficace, i brandelli di attualità a puntello della creazione (dal carrarmato di Piazza Tien an Men alle rivolte dell’Onda studentesca) sono troppo mass-medializzate per servire a tradurre il presente più prossimo, nessuno ci crede più. Il tentativo di interazione con il pubblico (scrivere insieme una poesia) è debole e superficiale, la drammaturgia sembra inceppare la scrittura di Crouch (avevo già visto England, portato in scena da Luca Scarlini) mentre lavora meglio il set design.

 

Straordinaria la pièce Marketplace 76, puro genius loci nord Europeo firmato Jan Lauwers (Need Company), che è anche attivo nei laboratori di teatro di quest’edizione del festival.
Un piccolo paese commemora la strage avvenuta per un incidente (una bombola di gas esplosa nel giorno di mercato nell’omonima piazza) che ha spezzato diverse vite nella comunità e scoperchiato comportamenti aberranti. Il dramma, indifferentemente recitato da tutti i personaggi sia in inglese sia in francese, si condisce della violenza più sordida ed inaspettata: al centro appetiti e devianze sessuali, pedofilia e crudeltà gratuita maniacalmente introdotti per gettare lo spettatore nella bieca disperazione. Scenografia bella (anche se quella di Sunken Red, della stessa marca ontologica, brillava di più), è la partitura musicale e la prova attoriale di quasi tutti i performer (i migliori sono stati Julien Faure, l’idraulico; Maarten Seghers, Squinty; Kim-Ho Signoret, la moglie dell’idraulico) ad entusiasmare di più, tutto sembra una gran commedia da tubo catodico, perfetta come raramente il teatro sa fare (lo stesso cast, capitanato da Lauwers, ha fatto anche un film, Goldfish Game, presentato a Venezia, alla Mostra del Cinema, nel 2002 sezione opere digitali e premiato nel 2004 allo Slamdance Festival).

Jan Lauwers: “La cultura fiamminga ha prodotto molti artisti importanti (ad esempio Fabre, con cui ci sentiamo e ci stimiamo), venire dallo stesso posto è però una coincidenza. Che riposa su alcuni aspetti cruciali: siamo una terra di confine, cattolica in un luogo di protestanti, dove tutti parlano tre lingue (e sarebbe bello anche in Italia fare un teatro in tre lingue). Il cattolicesimo ha prodotto ottimi artisti per via della sofferenza visuale della croce e del sangue. Sin da quando ero bambino mi impressionava più la croce che la tv ed è questo che crea la forza visiva di artisti fiamminghi come Bosch. Io non vengo dal teatro, faccio musica, canto dipingo e scolpisco. Faccio una cosa sola per un massimo di venti minuti. Ecco da dove viene l’ecclettismo che trovate nei miei spettacoli. Tra l’altro permette un maggiore scambio di energia. Sono molto interessato all’uso della parola anche se mi definisco di più un artista visivo: nel canto soprattutto, la parola diventa poesia. Se fossero solo parole, le mie canzoni sarebbero direttamente in inglese e le storie in olandese. La mia pagina bianca inizia a condirsi con un primo predicato: per chi scrivo, la domanda fondamentale. Poi la seconda è cercare gli attori ed i performer adatti a cui far leggere la storia. La pelle dell’attore è la pièce, mentre il performer è qualcuno che mette del suo in quel che riproduce (frutto dell’autore e del regista). Il mio maggiore sforzo è cercare un equilibrio tra presentazione degli attori e rappresentazione dei performer. Ad esempio uno dei personaggi dello spettacolo in scena a Venezia, l’idraulico, ad un certo punto muore: come vedete resta in scena, da quel punto in poi però è lui che ha deciso cosa fare, perché nel copione non c’era più.

Marketplace 76 (mi sono ispirato a Cassavetes) è la metafora della società, la crudeltà inserita in essa è una raccolta di tutte le bestialità che un giorno ho trovato in un quotidiano. Siamo stregati dalle stravaganze e soffochiamo nella monotonia.

Giorno 6: 7 agosto 2013

Krystian Lupa/Stary Teatr

 

Ritter, Dene, Voss (dall’omonimo dramma di Thomas Bernhard) incatena, per 200 minuti in prima italiana, gli spettatori del Goldoni nei meandri delle disfunzioni di famiglia, grazie ad una delle più belle scenografie viste alla Biennale Teatro, complice un ritmo serrato (in polacco, traduzioni in Italiano) di dialoghi perfettamente aderenti al testo originale come Lupa, premio Europeo del teatro nel 2009, ha abituato da tempo i suoi spettatori.

La storia (due sorelle, ex attrici di teatro, riaccolgono in casa dopo una lunga degenza manicomiale il fratello filosofo Ludwig) ben presto incatena i lettori/spettatori, che quasi possono udire lo sfogliare delle pagine immaginario del testo, uno dei più conosciuti del teatro moderno.

Nonostante la difficoltà della durata del pezzo, la recitazione degli attori è un manuale di dizione e di maestria di tempi (sottolineati a perfezione dal suono a cura di Marcin Fedorow e le luci di Adam Piwowar), accanto ai quali le posture sottolineano la forza e la fragilità insieme dei protagonisti del dramma di famiglia che si consuma, inesorabile, in un crescendo finale.

 

La scenografia, curata dallo stesso Lupa, ci precipita in un salotto borghese dell’Est, con quadri dalle tinte scure e ogni spazio della sala da pranzo riempito da oggetti e arredi che spesso il regista riutilizza nei suoi spettacoli. E’ una scatola di vita: la cornice arancio fluo che delimita i bordi della scena (incapsulata in vetro, come si trattasse di un pianeta, di una navicella calata al Goldoni) esercita un potere di attrazione che si sposa in ogni momento con l’incalzare della tragedia.

Se persone come me o come Castellucci (che adoro), facessimo gli artisti à la Damien Hirst saremmo ricchi. La differenza tra arte visiva e teatro è che quest’ultimo parla agli individui ed è senza mercanti.”


Giorno 7: 8 agosto 2013


Kinky!

Angelica Liddell, Leone d’Argento alla 42ma edizione del festival biennale di teatro di La Biennale di Venezia, ha dominato con la sua statura minuta e la sua straordinaria capacità di creazione e di ricerca del limite psicofisico.
Andata in scena con El Ano de Ricardo, una sua riscrittura del Riccardo III di Shakespeare per la quale ha vissuto in clausura per cinque mesi con tutta la compagnia, l’artista spagnola (laurea in psicologia, subito si è dedicata al teatro, fondando una compagnia tra le più internazionali del teatro castigliano) per 120 minuti non in un solo momento ha smesso di danzare, cantare, urlare e dedicarsi a pratiche di sottomissione/dominazione con in scena la sua metà artistica, Gumersindo Puche. Immersa in un’atmosfera a 120 bpm, tra techno musica manga e ballate rock.

La Liddell firma anche le scene straordinarie dello spettacolo, un vero e proprio endroit d’arte che non starebbe male in nessun museo, anche se non agito dalla performer spagnola. Il testo è la parte più straordinaria dello spettacolo se si accantonasse per un attimo la capacità interpretativa e la costante esperienza della pazzia in cui l’artista immerge prima se’ stessa e poi il pubblico: è disponibile in castigliano e in francese ed è pura poesia attorno al potere, al corpo politico, ai dittatori di ogni epoca e luogo, agli stermini passati sotto silenzio e a quelli noti solo perché gli sterminati o gli scampati ce ne hanno dato memoria facendone parola.

Quando in scena lava Puche e solo dopo si lava con la stessa acqua, quando si strofina la vagina con un asciugamano in un crescendo di follia, quando si lava ancora una volta dopo aver urinato nel catino, quando riesce a inarcarsi in un ponte con una sola leva d’appoggio (la spalla di Puche) su un piccolo letto per oltre cinque minuti (nel contempo urlando a squarciagola), si comprende cosa volesse mettere in scena, con una tale violenta percezione che se ne rimane commossi, soggiogati e, in una parola, slave.

Angelica Liddell: Il corpo è il luogo della violenza assoluta. Nascita e morte, ad esempio, sono due atti violenti. Mi piace come ne parla Derrida: il corpo oggetto del sacrificio. Porto in scena questo. Quando faccio teatro, mi piace pensare che mi stia dedicando ad un mestiere antico e mi concentro su tutte le espressioni umane della bellezza, che testimoniano noi, la nostra esperienza caduca, la tristezza e la fragilità che proviamo quando soffriamo. Mi interessa l’antichità perché mi permette di capire l’origine della comunità e dell’umanità.

Non mi piace parlare d’attualità e neanche utilizzarla. Anche in questo pezzo sembra che io parli del presente, ma la barbarie viene da lontano e a me interessa solo l’universale di ciò che ci appartiene e che sembra impossibile sradicare. Nello spettacolo parlo di buffoni politici: se anche si replicasse tra cent’anni purtroppo sarebbe sempre attuale. Non si chiameranno più Berlusconi, Blair, Aznar, Bush, ma altri buffoni arriveranno e continueranno a seminare il mondo con il loro dolore. In questo Riccardo III che ho riscritto, fedele al testo originario che parla di un despota invidioso dei creatori e degli artisti, parlo di ciò che appartiene al potere e quindi parlo di sporcizia.

Sono anarchica, non ho fiducia dei dogmi della comunità, m’interessa solo l’individuo e la sua libertà di pensiero e parola, ecco perché in questo Riccardo III le parole sono così importanti. Quello che esiste con la scrittura, attraverso la poesia, esiste di più: è memoria e conoscenza. Io cerco il teatro delle emozioni, non quello delle idee. Non voglio alcuna distanza tra attori ed opere, tutti dovrebbero essere poeti, perché i poeti non sono distanti dalla loro opera.

Mi preoccupa solo la scuola di oggi, in ogni dove: alleva ragazzi insensibili e mediocri che non andranno mai a teatro e se ci andranno, purtroppo il teatro non li cambierà.

Giorno 8: 9 agosto 2013

La parola ha un potere generativo genitale nucleare genitivo: Romeo Castellucci

Romeo Castellucci domina con Natura e Origine della Mente (un’azione di trenta minuti alle Tese, ripetuta tre volte, solo su invito) la sezione workshop della Biennale (terminata domenica 11 con cinque azioni su Shakespeare firmate da altrettanti coreografi e registi invitati da Rigola alla 42.ma Biennale Teatro).
Si tratta di un lavoro frutto della collaborazione di Castellucci e di 20 studenti che non ha una parola fine, essendo una prima collaborazione ed essendo nata per lavorare attorno alla destituzione dell’immagine in quanto tale.

Natura e Origine della Mente si basa sulle influenze che Holderlin e Hawthorne gli hanno lasciato dopo che ha utilizzato i loro testi per altrettanti spettacoli (tra cui The Four Season Reastaurant).
Una figura sospesa di donna fragile, giovane e bionda (una delle sue attrici predilette ed assistente alla regia della pièce, di provincia anch’essa come Castellucci, veneta e non romagnola: Silvia Costa), si regge con il suo dito indice ad un cavo di ferro sospeso a vari metri da terra, mentre sotto di lei vanno in scena frammenti di un gospel, alcune azioni che si intersecano con figure stagliate nel compensato (anche gli spettatori entrano in scena attraverso di esse, ricorda una performance di Ulay e Abramovic nudi vicino a una stretta porta; la donna sospesa, dall’aspetto molto giovanile, sembra uno dei manichini di Cattelan appesi a Piazza XXIV Maggio in una mostra della Fondazione Trussardi). Di lei Castellucci ha detto: è una figura sospesa in tutti i sensi, cade o spicca il volo? Non si sa e comunque possiede un’incredibile dose di fragilità e violenza compresse ed inespresse.

Entrando a teatro il pubblico si dispone in piedi, casualmente, seguendo di volta in volta il dipanarsi dell’azione: il primo performer che si incontra è Brenno un cane nero addestrato che cammina tra il pubblico con attaccato alla pancia un registratore che diffonde il miagolio insistente di un gatto. Ancora animali in scena, come sempre: Castellucci li considera una piacevole compagnia (dice: “forse è una mia debolezza”), un piccolo collasso nella tensione superficiale della fiction, ma sono presenti e alle volte anche il regista si stupisce della loro esistenza continua, tuttavia sono “tutto corpo”, tutto apparire e per loro non esiste senso della storia, discorsi almeno come li intendono gli umani, parole “monarca”.


Lo spettacolo è stato coprodotto dal Theatre de la Ville (Parigi) oltre che da Societas Raffaello Sanzio, con la collaborazione della Fondazione Biennale di Venezia (Castellucci ha curato la Biennale Teatro nel 2005).


Commovente fino alle lacrime, struggente, atroce, Natura e Origine della Mente funziona come una macchina inflessibile riflessa negli occhi da schiava della donna sospesa. Non è quasi possibile credere si tratti di un laboratorio, tanto mature sono state le scene e i suoi prop (mirabili uso e funzione di alcune sculture di gambe in legno che i performer usano per trascinarsi a un tratto, nell’infinito prostrarsi sotto la figura enigmatica, schiava  e dominatrice insieme, costantemente appesa ed immobile, unica cosa viva il suo sguardo mobile e implacabile, supplichevole e affermativo insieme).

Romeo Castellucci: “Il mio rapporto con la parola, con il testo scritto (con la Bibbia ad esempio) è esplosivo e complicato. La parola può scoppiare tra le mani e non è mai qualcosa di illustrativo, che da sola genera immagini. E’ qualcosa di radioattivo, di atomico. Le parole hanno intensità maggiore di qualsiasi altro segno, hanno un potere nucleare generativo e genitale, genitivo. Io trasformo le parole in azione.

Holderlin è stata la nostra medicina al laboratorio, quando iniziavamo le sessioni ognuno di noi leggeva liberamente un brano. Anche questo leggere è una letteratura, anche se paradossale. La poesia è azione in sé. Una parola che diventa tangibile, che diventa cosa.
La ricerca disperata della bellezza m’interessa in risposta al trash dell’oggi. E’ una forma di estetismo che si fa monachesimo.
L’immagine non è una “cosa”, è tutto ciò che è distante da me, irraggiungibile, non esperibile: per questo m’interessa.
Le immagini possono evocare, non costruire. Possiamo cogliere un’immagine ma non ci viene incontro, non viene da noi. E dobbiamo essere in grado di fissarla con un appunto.
Il mio teatro è fatto di violenza e di grazia e quest’ultima è una parola che mi piace moltissimo: io voglio essere rapito, con violenza e con grazia, di fronte ad un quadro, a un film.

Lo spettatore è sempre più importante per me, la sua mente è il palcoscenico ultimo e ciò che resta impresso nella sua pellicola vergine è l’ultima essenza del teatro, perché dopo ogni replica testo e scene, musica ed atmosfere scompaiono. Qualsiasi esperienza estetica in grado di interrompere il rumore bianco della comunicazione ossessiva che impregna i nostri giorni serve inoltre a creare pensieri ed è fondamentale.”