A spasso senza meta nel ventre favoloso di New York

Mad Visionaries award, Vera List Center Prize, Performa, Salon NY Art+Design, New Museum, MoMA

sezione: blog

08-11-2017
categorie: Design, Arte, teatro, performance,

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A spasso senza meta nel ventre favoloso di New York

Mad Visionaries award, Vera List Center Prize, Performa, Salon NY Art+Design, New Museum, MoMA

 

Lo sapevate che Madaleine Albright (il primo segretario di Stato donna della storia politica americana ed anche il primo ad essere ‘non nativo’ nel senso Trumpiano data la sua origine centro-europea) faceva diplomazia attraverso le spille (oltre che controversi affari con sue società di investimento proprio in Centro Europa)? 

 

Ogni volta che voleva lanciare un preciso messaggio in un consesso istituzionale o diplomatico (fiori e farfalle erano positivi, altre invece suggerivano messaggi negativi come quando approvò le prime, pesanti sanzioni sull’Iraq), indossava spille vistose sui baveri delle giacche e la sua intera collezione è stata donata al Museo di Foreign Policy e alle librerie presidenziali. 

 

Lo abbiamo scoperto - insieme ad aneddoti più interessanti relativi al suo impegno serio e costante nelle arti e nella cultura, anche se non era il suo ruolo ad imporglielo - quando è stata premiata, insieme ad importanti personalità del mondo delle arti e del design, MAD Visionaries! 2017. Per celebrare i 60 anni di vita del The Museum of Arts and Design (un elegante e ben attrezzato museo dedicato alle arti applicate dove al momento sono quattro le mostre ospitate fino al prossimo febbraio oltre a diversi studio ed atelier prestati ad artisti e designer all’interno del museo più una curiosa iniziativa di arte pubblica e design dentro e fuori il suo edificio, AMPL!FY), si è tenuto ieri uno speciale evento di fundraising con un’asta benefica da Cipriani, dove i donors hanno potuto anche scoprire i premiati 2017. 

 

Tra essi, anche l’italiano Barnaba Fornasetti, che ha donato anche una delle sue sedie che è stata battuta all’asta per oltre 5000 dollari.

 

Secondo uno dei giovani fundraiser del MAD, con cui ci siamo intrattenuti al tavolo durante la premiazione, una delle caratteristiche più importanti del museo - che lo rendono unico nel panorama museale dedicato alle arti applicate non solo negli USA, aggiungiamo noi - è proprio l’accenno alla formazione ‘continua’ ed il lavoro specifico con le scuole.  Oltre che, ovviamente, la importante funzione d’atelier per gli artisti che sono invitati periodicamente a stabilire il proprio studio all’interno del museo e quindi interagire più fluidamente sia con i curatori che con il pubblico di ogni genere ed età. 

Eventi come il MAD Ball (il museo prepara due eventi di fundraising all’anno e questo è il suo principale) sono cruciali per continuare a mantenere tutte le attività di formazione in piedi, dato che il museo si regge quasi sostanzialmente su fondi privati. 

 

New York ha di recente ospitato anche il Vera List Prize for Art and Politics 2016/1018, attribuito senza alcun limite di nazionalità e su base biennale dalla più interessante branch d’arte al mondo - e l’unica ad occuparsi della commistione arte/politica.

Situata alla The New School, quest’anno ha arricchito il momento del premio (andato alla brasiliana di stanza a Berlino, Maria Teresa Alves) con una due giorni di studio ed approfondimento attorno all’opera dell’artista premiata che è nota per creare giardini residuali e spontanei riflettendo su temi quali la nazionalità, la diaspora etc (spesso i suoi giardini raccontano una prospettiva inedita, la ‘botanica’ dell’emigrazione, usando a pretesto una serie di nozioni di paesaggio e di evoluzioni di specie botaniche avvenute per la dispersione del terreno che faceva da contrappeso alle navi e quindi trasportava semi non autoctoni, quelli dei colonialisti del commercio, da un luogo all’altro del pianeta: tutto questo avviene ancora oggi).

 

Se Kehaulanu Kauanui - docente di American Studies e prolifica autrice - ci ha parlato della sottile complicazione relativa alla dicotomia nativism/indigenation (specialmente in relazione all’abuso della parola nativo da parte dell’attuale presidente Trump) e di come un significato distorto possa facilitare una certa agenzia colonialistica che porta diretti alla giustificazione dell’uso fisico politico e cosmologico (insomma la distrazione della terra dai popoli proprietari …e The New School, dove il simposio avveniva, è su una terra Lenape: Manhattan era indiana come molti altri luoghi americani), Seth Denizen invece ci ha introdotti ad una incredibile storia letta da lui tra urbanistica e politologia in Messico dopo il recentissimo terremoto di settembre. Mette insieme l’uso specifico che l’artista Alves fa del suolo al collasso dello stesso in Messico (a volte sprofondato di un metro) e in particolare alla relazione di questo fenomeno con la qualità ‘finanzializzata’ del settore di edilizia pubblica in quel paese che rende di fatto diverse le ‘qualità materiali’ del terreno da costruzione dato il fragile contesto, impoverendo i proprietari.

 

L’europeo Tomas Mastnak di stanza a Princeton per ricerche ha invece concentrato la prolusione sulla qualità semantica di un’altra caratteristica dell’opera di Alves, che si interroga sempre e continuamente su ‘come e dove stiamo in piedi’ sulla terra, su quale suolo. 

E ci ha fatto riflettere che spesso, ‘alcuni semi di fiori cooperano con i ‘settlers’ e colonizzano paesaggi prima devoti a culture primigenie sradicandole: ad esempio il 99% dei fiori californiani si è suicidato lasciando posto a specie lontane’ E’ qualcosa che sa di genocidio…

 

La qualità - o meglio le infinite qualità e poteri, incluso lo storytelling - dei semi sono state oggetto di altrettanto interessanti prolusioni e conversazioni come quelle di Jane Bennett (politologa) e Radhika Subramaniam (Parsons), che tra le altre cose ci ha ricordato che ‘i semi insegnano agli artisti che il tempo può ancora restare fermo’.

 

Il Vera List Prize non si è esaurito nella due giorni di convegni (e nell’inaugurazione della bella mostra della Alves che presenta disegni e piante nella galleria della The New School fino al 27 novembre): un giorno a settimana (il 7, il 9, il 14, il 21) ci sono delle conversazioni all’ora di pranzo alla Aronson Gallery e 3 camminate esplorative per piantare semi, visitare giardini e molto di più (su prenotazione).

 

New York apre anche il suo gigantesco ventre a Performa 2017, diventato evento biennale. Per saperne di più sul gigantesco roster di eventi (150 artisti con 40 curatori e un pubblico atteso di oltre 40,000), meglio passare qualche tempo all’hub del festival (427 Broadway) dove farsi aiutare nella navigazione del programma dai mediatori, prenotare le performance a pagamento o prenotare quelle gratuite ma a capienza limitata, e magari ascoltare anche talk e presentazioni di libri. Oltre a danza e azioni d’arte, ci sono live di ogni tipo, persino marce in danza (come quella organizzata da Storefront con the Marching Cobras di Harlem) e addirittura action painting in forma di intervista (come quello di Tracey Emin il 10 novembre).

 

Non manca il design da collezione, con un appuntamento ormai considerato ‘fisso’, Salon NY Art+ Design (per il pubblico dal 10 al 13 novembre all’Armory). 

Non è una fiera totalmente simile alle sue ‘consorelle’ (come ad esempio, per restare nel continente americano, Design Miami) in quanto affianca (con un certo stile, che si potrebbe definire senza tempo) al decorativo anche il moderno e contemporaneo nelle arti visive. Le gallerie quest’anno sono 50, le nazioni da cui provengono 14 (le europee in numero maggiore). 

Personalmente sono rimasta assai colpita da un lavoro di un artista che spesso produce in Italia, si tratta di Riptide (1996) firmato da un ceramista vivente, Neil Tetkowski ed esposto allo stand della Moderne Gallery di Philadelphia.

 

 

Il New Museum  a Bowery ha in mostra, tra l’altro, due progetti video che in particolare vanno visti (sono dotati di sedute stravaganti e confortevoli, realizzati da uno sponsor, perfetti per sdraiarsi e riposarsi in un freddo giorno invernale).

Uno è di Petrit Halilaj ed è significativo perché è arricchito da un’incredibile ‘proboscide’ scultorea di grandi dimensioni (in pratica un’intera stanza accanto alle proiezioni che si svolgono su 5 diversi schermi che si spengono e si accendono variamente). Il titolo del diciamo film è RU, sta a significare Runik e si riferisce ad una città del Kosovo dove è nato e vissuto. Il tema del lavoro è sia reale sia immaginario.

Kalhil Joseph, il cui lavoro è accanto a quello di Petrit ed è in mostra del pari fino al 7 gennaio, è un giovanissimo autore di Los Angeles e mostra un film fantastico che parla della città dove il museo è, ovviamente New York. In particolare, Fly Paper, racconta di un fotografo (Roy DeCarava), di una scena (quella jazz) e di un quartiere (Harlem) di cui si è a lungo occupato. Quel che rapisce è il suono - e da sempre Joseph lavora molto su questo elemento per lui cruciale. Questa mostra è stata prodotta con la collaborazione di the Vynil Factory (Londra)

 

 

Il MoMA ha appena inaugurato la più grande retrospettiva del fotografo americano (precisamente è di New York, di origini ucraine) Stephen Shore che sarà in mostra fino al prossimo 28 maggio. La mostra è anche meravigliosa per la sua progettazione che invita davvero il pubblico a stare parecchio a vedere tutte le foto. 

Ovviamente parte dai suoi esordi con la Factory dove era quasi il ritrattista ufficiale e termina con l’oggi dove Shore si dedica molto al suo canale Instagram e ad auto-pubblicare i suoi libri. In mezzo 50 anni di progetti e di carriera che…iniziò proprio al MoMA quando lui, all’epoca solo 14nne, contattò l’allora direttore del settore acquisizioni fotografiche per un appuntamento che non solo ottenne ma che gli permise di farsi comprare tre scatti. Va detto che i genitori di Shore (che sono anche ritratti - nudi e vestiti - in mostra) gli regalarono una camera oscura e una macchina fotografica quando aveva solo 9 anni!