La politica delle forme, la Biennale di Okwui Enwezor

Muscolare in temi e quantità dei nuovi lavori, suscita domande. Durata disvelalmento partecipazione

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06-03-2015
categorie: Arte,

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La politica delle forme, la Biennale di Okwui Enwezor

Muscolare in temi e quantità dei nuovi lavori, suscita domande. Durata disvelalmento partecipazione

Okwui Enwezor ha presentato le novità della 56ma edizione della Biennale D’Arte, che ha intitolato “All the World’s Futures”: i numeri – così come il tema – sembrano muscolari, impegnati ed impressionanti, tuttavia temo il (facile) sensazionalismo della stampa su un tema nodale nella storia contemporanea (la crisi del mercato del lavoro, la crisi del capitale, la recente storia economica e politica del pianeta) preso in prestito a mo’ di didascalia e per lo più usando due autori-monstre – Karl Marx e Walter Benjamin.

 

Gli scritti di questi due pensatori sono stati in realtà utilizzati come base per un dialogo fecondo tra Enwezor ed ognuno degli artisti, viventi, invitati ma l’asse è altrove. Si trova nel rapporto generativo che caos, disordine, insicurezza, promesse, esercitano (oggi come ieri) sull’arte e sugli artisti di qualunque nazionalità (che però Enwezor sceglie molto bene da ogni angolo del pianeta).

 

E non c’è un approccio pre-definito bensì un palcoscenico dove il curatore organizza dei filtri (durata, giardino del disordine, lettura dal vivo del Capitale) a partire dal modello di mostra che la Biennale ha offerto da 120 anni ma dove poi a fare la differenza è il pubblico che assorbe, re-interpreta e vede sempre diversamente i gesti degli artisti che hanno una tale pluralità di media da garantire una gigante raffigurazione della “società dello spettacolo” - diametralmente diversa (questo è un nostro pensiero) da quella che si vede nel tessuto reale di società e città lacerate, demistificate, disperse, spesso sull’orlo della bancarotta e della disgregazione.

 

Sarà una biennale con ampie sezioni performative (sia ai Giardini dove un apposito spazio è stato designato e creato; sia all’Arsenale) per ciascuno dei giorni di apertura (quest’anno dura un mese in più, dal 9 maggio al 22 novembre 2015); sarà probabilmente ricordata come la Biennale con il maggior numero di collettivi artistici di ricerca fondatisi in tema recente ed operanti su temi di stringente attualità; sarà di sicuro la Biennale con la più incredibile produzione cinematografica (real time) e quella con le ampie rassegne su autori ed opere storiche (tra cui una straordinaria antologica di foto di Walker Evans, tutti i neon con le parole di Bruce Nauman che aprono la sezione all’Arsneale ed ancora Chris Marker, Isa Genzken e tanti altri fino ad un intero atlas filmico di Alexander Kluge dove spendere pomeriggi finalmente a trovare tutta la sua opera).

 

Tuttavia è, tanto per cominciare, la Biennale con maggior numero di commissioni di opere nuove ed è la Biennale più ambiziosa dal lato del publishing. Oltre ai tradizionali cataloghi e guida handy alla fine della mostra ogni produzione poetica, scrittoria, performativa, di ricerca sarà stampata in un grande volume (un Annuario sulla scorta di quanto accadeva per le biennali dal 1974 al 1976) che cerca di rendere, ai posteri, quel senso di “durata epica” che condisce tutto il lavoro curatoriale di quest’anno e che non si è sustanziato in una scultura, un quadro, un video od altro output fisico e materico.

Sarà anche, per citare le parole del curatore, una biennale ricca di disegni, pittura, grafica, mapping e fotografia. Sembra, qui sulla carta, molto più enciclopedica di quella del brillante brianzolo Gioni (1973) che pure era vasta ma che qui, in confronto, ci sembra più vasta sul tema estetico che non sul numero di produzioni e di accostamenti.

 

Prima i numeri, poi un highlight su alcune delle opere, quelle sì straordinarie, che il curatore ha selezionato e contribuito a creare, commissionandone ben 159 nuove (una cifra impressionante rispetto ai tempi che corrono, quelli sì della dittatura dei budget, molto molto mortificati rispetto a qualche anno fa).

89 partecipazioni nazionali tra Giardini, Arsenale e vari palazzi veneziani (sono ancora 2, ai tempi che scriviamo, quelli senza sede: Islanda e San Marino mentre è curiosa la sede della Nuova Zelanda che si divide tra la straordinaria Biblioteca Marciana e l’Aeroporto Marco Polo). 5 i paesi presenti per la prima volta: Grenada, Mauritius, Mongolia, Repubblica del Mozambico, Repubblica delle Seychelles. Altri paesi partecipano quest’anno dopo una lunga assenza: Ecuador (1966), Filippine (1964), Guatemala (1954).

 

Sono 136 gli artisti invitati dal curatore, dei quali 89 sono presenti per la prima volta, provenienti da 53 paesi - gli italiani sono quattro (Mauri, Pascali, Bonvicini e Barba), solo le ultime due viventi.

 

La parola, il canto, la dialettica e la condivisione di una forsennata pratica di creazione di riviste, libri, film e altro materiale trova casa in un nuovo spazio designato dal curatore all’atto di riunirsi e condividere. Quello che, forse, dovrebbero tornare a fare i Parlamenti nazionali.


Si chiama Arena e si trova al Padiglione Centrale (Giardini) entro cui viene finalmente nobilitata una perla tutta veneziana (la biblioteca dell’ASAC che Gioni utilizzò per la conferenza del finissage) e di nuovo riscoperto il giardino-periplo di Scarpa (che Giorgio Andreotta Calò e Sarah Lucas avevano, da ultimo, già mirabilmente affrontato). Nella Biblioteca il duo libanese Adjithomas&Joreige darà vita a una singolare performance di durata dove “persone dalle dita bellissime” (il curatore ha spiegato le richieste degli artisti in fase di produzione) leggeranno per tre ore e daranno vita a “Latent Images: Diary of a  Photographer”. Da cosa leggono e di cosa parlano? Leggono fotografie non testi, quindi le interpreteranno nell’unico modo possibile (con il corpo e le parole), si tratta di un libro di immagini di pochi anni fa di circa 1315 pagine, autore Abdallah Farah.

 

Arena è firmata dal noto architetto africano, di stanza a Londra, David Adjaye (quando non era così di moda firmò un padiglione temporaneo per TB21 all’Isola di San Lazzaro per un’opera mirabile di Olafur Eliasson - un raggio di luce - ormai dieci anni fa).

 

Tra i collettivi presenti (sono numerosi e vengono da molte parti del mondo, dal Messico all’India passando per l’Europa), Invisible Borders (Lagos, 2011) cura una retrospettiva sulla fotografia mentre il transazionale (e tra i più interessanti invitati dal curatore) Gulf Labor (2010) presenta una sofisticata sezione sulle condizioni di lavoro (un report dei diritti negati tra Asia meridionale e Golfo Persico) a cui fanno eco, involontario e pregnante, alcune tra le nuove commissioni (tutte presentate in Arena): Jeremy Deller presenta i canti di fabbrica dei lavoratori dal XIX ad oggi nel mondo occidentale mentre Olaf Nicolai riscrive le partiture di Nono ispirandosi alle poesie di Pavese e ai murales. Ancora canti, stavolta campionati secondo una progressione da 57 a 190 battiti al minuto; si tratta del lavoro di Jason Moran: Staged che raccoglie quelli di una prigione statale della Louisiana (Angola).

 

In particolare l’Arena ospiterà la lettura dal vivo, non stop, dei tre volumi di Das Kapital (Il Capitale) di Karl Marx . E non solo; conferenze, proiezioni, mostre e dibattiti saranno l’entrata inevitabile di tutti i visitatori che si apprestano a vedere la sezione curata da Enwezor ai Giardini. Soprattutto, afferma convinto Enwezor, sarà uno spazio per i sogni collettivi. “Non sarà al di fuori del mondo comune, della vita reale, anzi: assumerà tutti i meccanismi (e, come vedremo tra breve) le attualità del mondo e della nostra realtà nella mostra.”

 

Dice anche il curatore, stimolato da una domanda di Slow Words People and Stories from this World:Il tema di questa Biennale non è politico nel senso più pieno. L’unico statement che va in questa direzione tra quelli che ho fatto è il parlamento delle forme: mi interessa la capacità delle forme (delle opere degli artisti) di produrre significato. Certo, non mancherà di creare tensioni ma direi più tra chi è iconoclasta e chi è anti-iconoclasta. Non sarà una battaglia, piuttosto sarà un pattinare sul sottile margine delle culture dell’instabilità, in un mondo dove tutto quel che accade è politico.”

 

Tra le artiste invitate, vi è la cubana (normalmente di stanza a New York) Tania Bruguera, attualmente agli arresti domiciliari a Cuba ed impossibilitata a lavorare e muoversi. Sarà tra gli artisti presenti, con un lavoro seminale (una performance d’archivio, anno 2000, presentata per la prima volta alla Biennale de L’Avana e lì subito censurata: Enwezor ebbe occasione di vederla proprio lì nell’unico enactment che fu concesso, il primo, prima che il governo di Fidel Castro la bandisse).

Gli abbiamo chiesto se prenderà posizione in caso di frizioni tra artisti e governi o, nel caso di Bruguera, se non le sarà permesso di prendere parte alla Biennale di Venezia.  Ci ha (solo) risposto che ha invitato Bruguera a luglio scorso, prima che fosse arrestata. Insomma non ha spiegato se interverrà o meno in casi come questi – considerando che ad esempio (nell’Arena) andranno in scena lavori di grande significato politico (non scevri da censure o da possibili, rischiosissimi atti di ritorsione soprattutto in patria), come il cinema d’emergenza firmato day by day  dal collettivo siriano/palestinese anonimo Abounaddara nato nel 2010: offriranno documentari dalla Siria di oggi, scene della vita di quel paese andranno in scena ogni venerdì a Venezia, quindi nel mondo, così come sono state girate.

 

Tante le commissioni speciali in entrambi gli spazi espositivi (ed anche all’esterno, a Via Garibaldi), le più interessanti una nuova opera di Raqs Media Collective (statue senza volto) e una giostra di Carsten Holler ai Giardini.

 

Dal ripensamento del brand operato da Koolhas (ma anche in precedenza con Bice Curiger che introdusse un quadro di uno storico pittore, Tintoretto – ed ancora con Massimiliano Gioni che ha esposto il Libro Rosso di C.G. Jung dove adesso ci sarà la Macchina degli Acquerelli di Fabio Mauri, la sala Chini), la Biennale si avvia ormai chiaramente a privilegiare ed assicurarsi a lungo termine un rapporto con visitatori non specialisti che devono sapere di incontrare una mostra culturale, dal tema più “macroscopico possibile” più che addentrarsi, temendo di non capire nulla, nella più sofisticata e d’avanguardia mostra d’arte contemporanea al mondo.

 

Vedremo se con il tema prescelto l’asse deflagrerà verso il sensazionalismo o se, come ci auguriamo viste le ottime premesse, sarà abile a creare (per la vera prima volta nella storia di questo festival unico al mondo) un luogo eccezionale per la produzione di cultura contemporanea altra e difficile da acquisire nelle nostre normali vite – impegnate in altro e spesso lontane dai problemi “contestuali” di alcune zone del pianeta.